Atto quarto: Madùk nel bosco sacro
Non aveva mangiato nulla durante tutto il pomeriggio, la carne essiccata rimasta, era stata perduta durante la lotta con il cinghiale, e ora la fame si faceva sentire. Aveva raccolto soltanto qualche bacca durante il cammino, offerte dalla vegetazione del sottobosco. Bacche acidule, rosse, nere e d’altri vari colori, ma Madùk era sostanzialmente carnivoro, e lo stomaco reclamava dosi di cibo quantitativamente più consistenti. Con l’occhio acuto, da esperto cacciatore, aveva scrutato il terreno in cerca di qualche orma... ma non n’aveva avvistato nessuna, salvo quelle dell’animale con le corte e affilate zanne dal quale era stato assalito... nemmeno orme umane; solamente battiti d’ali e il gracidare di grossi volatili con grossi rostri e artigli acuti, che rompevano il silenzio melodioso del bosco sacro. In lontananza, saltuariamente, un’eco d’ululati rompeva l’aria calda e umida di cui Madùk sentiva sulla propria pelle la reazione. Mentre il buio accelerava il suo manto, il cacciatore vide un grosso uccello appoggiarsi su di un ramo, poi appollaiarsi nel nido, a poca distanza da lui. L’istinto lo guidò. Aveva già sperimentato un pasto simile: si arrampicò sull’albero e, dopo aver scacciato l’inquilino con la punta della lancia, vide che il contenuto del nido era composto di tre uova di media dimensione. Afferrò il primo e, dopo aver rotto il duro guscio, trangugiò il contenuto avidamente; nello stesso modo ingollò gli altri due. Ora, lo stomaco non reclamava più, e il cacciatore-raccoglitore si sentì satollo. Ridiscese dall’albero e guadagnò il terreno. Nei pressi, una bassa pianta a foglie larghe e concave, offriva acqua che tratteneva in una di esse. Madùk immerse il viso nell’incavo e bevve il liquido contenuto, con avidità. Per ora, il problema legato alla sopravvivenza e dipendente dal cibo, era stato risolto. Nel frattempo il buio avanzava, fra poco il cacciatore sarebbe stato accerchiato da questa magìa che succedeva ogni giorno ciclicamente, e che incuteva un certo terrore all’essere delle caverne ,che si sentiva indifeso e provava paure ataviche, alle quali non sapeva dare risposte razionali. Più il buio si accentuava, più gli ululati s’intensificavano, provocando tensione al piccolo uomo che non ricordava di aver mai sentito tali suoni inquietanti. L’istinto lo spingeva a cercare un rifugio, una protezione per la notte, regno degli spiriti, e portatrice di pericoli di vario genere. E poi, gli ricorrevano alla mente i racconti e i tabù di Trùk, lo sciamano, che di spiriti se ne intendeva. Ora Madùk cominciava ad avere paura, paura dell’ignoto, paura di ciò che non conosceva. In quel momento, sentì, anche, nostalgia della sua caverna dove, certamente, la tribù era raccolta intorno a fuoco, mangiando ciò che i cacciatori avevano predato ascoltando lo sciamano e i suoi propiziatori racconti, per poi addormentarsi accanto al caldo fuoco e immergersi nell’onirico mondo degli spiriti. Nel suo cammino, non aveva visto né grotte né spelonche, nemmeno anfratti in cui riparare e nascondersi; solamente masse di rovi, cespugli, piante e alberi. E proprio su questi ultimi rivolse la sua attenzione. Conoscendo il pericolo notturno che incombe rimanendo sulla nuda terra, decise di passare le ore dell’oblio su un albero, al riparo da eventuali minacce; così, si arrampicò, con destrezza quasi animalesca, su uno di essi fino a trovare alcuni rami che, casualmente, offrivano la possibilità di poter alloggiare il piccolo uomo ricoperto di pelli. Madùk si appollaiò tenendo la sua lancia ben stretta fra le mani e rivolta in giù, verso il suolo, pronto a fronteggiare qualsiasi eventuale pericolo. Dopo essersi sistemato, alzò gli occhi al cielo: attraverso gli spazi visibili tra il fogliame, una piccola falce argentea costellata di piccole luci algide, brillava sullo sfondo nero del firmamento. Fu catturato da quella visione, e ricordò che la falce era una piccola parte della dèa diafana che andava, nel tempo, a completarsi fino a formare un disco totalmente pieno, con sfumature diverse, che si presentava in vari periodi, per poi ritornare nuovamente falce. L’uomo della caverna non capiva il perché, perciò riteneva questo fenomeno anch’esso una magìa. Per tutta la notte Madùk non chiuse occhio, rimase in allerta per tutto il tempo; al buio compatto, gli ululati si erano intensificati e il cacciatore provava paura, mentre nella sua mente frullavano pensieri, dei quali non comprendeva la provenienza, che lo inducevano a cercare, inutilmente, un perché a tanta magìa celeste... forse pensava ad un gran dio che aveva fatto tutto questo ma, forse, anche alla ragione dell’esistenza di piccoli uomini come lui. Forse!
L’aurora dalle rosee dita, lo colse nel pieno dei suoi pensieri, riconducendolo alla quotidianità del suo modo di essere: un piccolo uomo delle caverne.Gianpiero Dèlmati
Madùk (disegno di Carla Preti)