Madùk 5
Caccia alla lepre
Il cacciatore, durante la notte insonne aveva pensato che sì, aveva visto degli uomini simili a lui e dai quali apprese il rito della sepoltura, ma con i quali non aveva mai avuto contatti, poiché riteneva che potessero invadere il territorio di caccia riservato alla sua tribù, che rappresentava tutto il mondo da lui conosciuto. Madùk era pervaso da un’insistente convinzione: non potevano esserci solamente quei pochi individui in un così vasto territorio che si perdeva a vista d’occhio. E anche per questo la sua irrefrenabile spinta interiore aveva preso piede: scoprire altri esseri come lui che, forse, vivevano in altri luoghi. Questo era il suo pensiero dominante per tutto il tempo in cui la luce della falce diafana penetrava nei suoi occhi. Madùk scese dall’albero velocemente dopo aver scrutato il suolo, e tese le orecchie per potersi assicurare che non v’era pericolo immediato. Fiutò l’aria frizzante e, per un attimo, cercò di orientarsi: non conosceva il perché ma sapeva, istintivamente, di proseguire seguendo il cammino del dio luminoso, che compiva il suo arco nel cielo e si nascondeva nella grand’acqua salata. Quando posò i provati arti inferiori al suolo, ricoperti di pelli animali, gli sembrò di assorbire energia dalla Grande Madre, come la chiamava Trùk, lo sciamano. Ora, il disco di luce era più alto sopra la testa: il suo senso d’orientamento, la direzione della mèta, era segnato dall’arco che il gran dio percorreva durante il giorno, e Madùk ne seguiva la parabola dirigendosi dove il sole calava ogni sera. Ma ora lo stomaco reclamava cibo. L’istinto del cacciatore gli faceva scrutare il terreno in cerca di tracce, e tendere le orecchie ad eventuali rumori o suoni che gli animali producevano. Dopo aver percorso qualche decina di passi, s’avvide che una lepre si era infilata nella sua tana. Il piccolo uomo aveva già esperienze di questo tipo: prese fra le tozze mani un grosso sasso e, leggero come una libellula, si avvicinò alle spalle dell’apertura scavata dal piccolo mammifero nel terreno fra gli arbusti, e lo depositò cautamente, ma con gesto sicuro, all’imboccatura del pertugio per ostruirne il passaggio. Poi, si mise di fronte alla tana e introdusse con forza più volte la lancia, fino a quando l’asta si conficcò nel corpo della preda, che rimase colpita a morte. Madùk attese un poco e tolse la pietra, poi ritirò la lancia con la preda infilzata, ormai priva di vita. Gli occhi del piccolo uomo ebbero un guizzo di luminosità, sinonimo di vittoria. Il pasto era assicurato. Il cavernicolo sapeva accendere il fuoco, e ne conosceva il magico segreto tramandato da generazioni, che n’avevano vinto le paure ancestrali. Munitosi d’alcuni legni di piccola dimensione, cominciò l’operazione di sfregamento. Agiva sull’attrito che generò calore, dopo qualche tempo una piccola linea di fumo cominciò ad aleggiare nell’aria, l’uomo soffiò sul piccolo braciere e qualche
fiammella prese forma: il magico fuoco era in vita! Accumulò altri arbusti e pian piano la fiamma s’irrobustì, compiendo la magìa. Ora Madùk doveva scuoiare l’animale. Prese l’ascia e cominciò l’operazione. Aiutandosi con i denti, le mani e l’ascia, in breve la pelliccia del piccolo mammifero rimase divisa dal resto e Madùk, con le mani lorde di sangue ancora caldo, pose la preda sul fuoco tenendola sospesa con una specie di spiedo, ricavato dal ramo di un albero lì vicino. Il profumo della carne arrostita fece sorgere l’acquolina nella bocca del cacciatore, che pregustava il pasto. Tutta la lepre fu divorata avidamente, le ossa scagliate lontano, e la pelliccia fu infilata nella cintola, accanto all’ascia, con l’intento di riportarla alla caverna, dove le donne l’avrebbero sottoposta a lavori di semplice conciatura, facendone capo di vestiario. Adesso lo stomaco era appagato. Il piccolo uomo gettò della terra sul fuoco, raccolse le sue armi, alzò gli occhi verso il dio della luce per seguirne il tragitto, e si diresse verso il folto del bosco sacro. Mentre camminava con le orecchie tese, sentì un attraente gorgoglio: acqua! Si diresse verso la provenienza del gradito suono e vide un rivolo che sgorgava da una roccia che, tramite un dislivello, precipitava al suolo, provocando il suono da lui udito. Si avvicinò e mise tutta la faccia sotto lo zampillo, aprì le mascelle e ingurgitò il liquido, assaporando un senso di freschezza in tutto il corpo; così lo stimolo della sete fu domato. Il dio della luce si trovava perpendicolare sopra la sua testa, il piccolo uomo decise di attendere, accanto all’acqua, che il cammino del disco di fuoco nella volta celeste segnasse il suo tragitto.Gianpiero Dèlmati