Verso l’ignoto -
La terza avventura di MadùkErano passate tre Lune. Per tre volte la chiara dèa aveva completato il suo disco diafano da quando Aràk era stato sepolto... quel giorno Madùk aveva camminato fino a quando il disco di fuoco era alto nel cielo, attraversando terreni scoscesi, macchie di vegetazione a foglie larghe, scalato rocce e attraversato torrenti. Poi, si era fermato spinto dalla sete e dal caldo che il dio celeste emanava, ad abbeverarsi ad un fonte che sgorgava da una roccia; aveva ripreso fiato, controllate le sue armi di legno e sélce: una scure con impugnatura di legno e lama in pietra, inserita in una specie di cintura attorno alla vita, e una lancia, anch’essa in legno con punta in sélce, e dalla quale non si separava mai quando si allontanava dalla caverna. Madùk, era stato spinto da un impulso profondo e da un pensiero nuovo che aleggiava nella sua mente e lo assillava: la curiosità di dare una risposta alla domanda che, da qualche tempo, frullava nella sua cervice e corrucciava la sua arcata sopraciliare ... “ possibile che non ci fossero altri esseri come lui da qualche parte, oltre il territorio di caccia che i membri della sua tribù conoscevano, e dal quale non erano mai usciti?”. Questo era il motivo per il quale voleva oltrepassare il bosco sacro, che si trovava nella direzione del dio della luce quando spariva inghiottito dal gran fiume Oceano, oltre il quale nessuno della tribù osava spingersi; lo sciamano, il vecchio della medicina e del mondo degli spiriti, lo aveva reso tabù poiché, diceva, oltre quel bosco vivevano gli spiriti della notte, che non dovevano essere né visti né disturbati dagli uomini. Trùk era il suo nome; era stato un valido cacciatore e, come anziano della tribù, aveva, nel tempo, appreso i segreti della magìa da suo padre, morto molte Lune prima che Madùk vedesse la luce. Conosceva il potere delle erbe e parlava con gli spiriti, che evocava accanto al sacro fuoco nelle notti di luna piena. Curava le ferite inferte dalle prede ai cacciatori, e preparava bevande che trasportavano gli uomini in dimensioni oniriche magiche e sconosciute, altri mondi in cui l’estasi dei sognanti si tramutava in dimensione evanescente, inafferrabile, perciò... magica.
Ora Madùk, si era dissetato e, da una piccola altura vedeva il fitto bosco all’orizzonte, e di là dalla folta macchia verde, una distesa interminabile. Aggrottando la bassa fronte e forzando la vista, le parve di scorgere un’esile colonna di fumo salire verso l’alto e svanire nell’azzurra volta celeste. Rimase attonito: “Forse gli spiriti stavano danzando attorno al sacro fuoco...”, pensò. Sentì un brivido giù per la schiena, quasi di paura, paura dell’ignoto. Ma l’istinto, intriso di nuove scoperte e l’innata voglia di conoscere, unite alla curiosità, lo spinsero a non cambiare il suo proposito. Addentò un pezzo di carne, quasi essiccata, che portava con sé appesa alla cintola e, dopo averla inghiottita, con le due mani unite a contenitore bevve ancora una volta la fresca acqua di sorgente; riprese il cammino verso la folta vegetazione che stava innanzi a lui. Mentre i passi si susseguivano ad altri passi, i sensi di Madùk si acuivano sempre più. Da valido cacciatore quale era, scrutava il terreno e tendeva le orecchie ad ogni rumore o suono. Ad un tratto, il bosco sacro lo avvolse in un’atmosfera umbratile, la vegetazione era fitta e la luce che emanava il divino disco faticava a penetrarla, al punto che il bravo cacciatore strinse istintivamente con forza la sua lancia, quasi ad eleggerla tutore protettivo su cui scaricare la tensione che lo aveva coinvolto: tese i muscoli, pronto alla difesa. Ad un tratto scorse delle orme di un animale a lui sconosciuto. Mentre camminava circospetto sentì, a circa dieci, dodici passi, un grufolare davanti a lui: un grosso mammifero di lunghezza superiore alla sua lancia e d’altezza all’incirca metà della sua lunga arma, dalla mole cinque – sei volte quella del cacciatore, avanzava verso di lui. Il muso allungato terminante con il “grifo” inserito nel grugno, con il quale frugava e scavava nel terreno, e nel quale s’aprono le narici; orecchie dritte appuntite, occhi piccoli, zanne rivolte all’insù, il tronco tozzo con pelle spessa ricoperta da un mantello di setole nero-grigiastre che, lungo la schiena, formavano una specie di criniera, gli arti corti e robusti provvisti di quattro dita, di cui soltanto due poggiavano sul terreno, coda corta, attorcigliata, e la testa grossa.
Madùk aveva realizzato tutto questo in brevissimo tempo, grazie alla sua esperienza di caccia, e aveva capito che l’animale si sentiva istintivamente minacciato; aveva alzato il grugno e fissava l’uomo, pronto a caricare... in principio pensò di affrontarlo con la lancia ma, vista la mole ed intuìto l’impeto con cui l’animale lo avrebbe attaccato, si pose sulla difesa. La bestia smise per un attimo di grufolare, si preparò alla carica e iniziò la sua devastante corsa verso l’uomo che già aveva affrontato animali anche più grossi di quello, ma la caccia era condotta in gruppo e quindi tesa a disorientare la preda, ma adesso si trovava solo e minacciato da un animale di cui non conosceva nulla. Quando il grosso cinghiale fu a pochi passi da lui, con un balzo si appese ad un ramo di una grossa quercia, piegando le gambe affinché l’animale non lo colpisse. La furiosa corsa del cinghiale finì, così, contro il tronco dell’albero e l’urto gli provocò un attimo di stordimento; Madùk n’approfittò: con la lancia colpì più volte sul dorso, dove la criniera era più folta. Dopo qualche istante sentì l’animale grugnire dal dolore mentre si allontanava dalla quercia sanguinante, scomparendo nel folto del bosco. Rimase appeso ancora per un lungo tempo, fino a quando sentì i muscoli delle braccia fargli male; con un balzo quasi scimmiesco riacquistò il terreno. Alzando la lancia verso il disco divino, emise un lungo suono gutturale, di vittoria. Si guardò intorno, circospetto, tendendo le orecchie: solamente uno sbatter d’ali di grossi uccelli che s’involavano dagli alberi, rompeva il silenzio del bosco sacro. Madùk, improvvisamente, si ricordò di aver viste quelle zanne appese al collo di Aràk nelle notti di luna piena, quando danzava intorno al fuoco, ma nemmeno lui aveva mai incontrato il possessore delle zanne: gliele aveva donate lo sciamano della tribù durante uno dei suoi racconti di caccia avvenuti molte lune passate, quando né Aràk né Maduk facevano parte della tribù, e Trùk ricordava i tempi in cui i suoi capelli erano ancora neri, e il suo corpo era agile e giovane. Questi pensieri gli occupavano la mente. Mentre attraversava un acquitrino e riprendeva il cammino verso la mèta prefissata, Madùk si accorse che il buio scendeva, poiché si avvicinava il tempo in cui il dio di fuoco andava a riposarsi, di là dal gran fiume Oceano.Gianpiero Dèlmati