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Il Racconto del Mese

< Gennaio 2006   >

-  La prima lacrima di Madùk -

di Giampiero Dèlmati

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La prima lacrima di Madùk

Durante la notte e buona parte del mattino, una pioggia fitta e fredda era caduta, e il paesaggio riluceva sotto i raggi del dio della luce... una magìa per Madùk che, allontanatosi pochi passi dalla sua caverna, caldo rifugio per la notte e oblìo contro le paure che assalivano l’uomo nell’intimo, e alle quali non sapeva dare spiegazione se non rimarcare uno stato d’animo di tensione, rimaneva attratto da quel fenomeno della natura. Ma Madùk era un capo, un abile e forte cacciatore, di circa 20 anni; alto un metro e sessanta centimetri, robusto, con collo taurino e spalle ben tornite ed era dotato, oltre che di un istinto naturale, anche d’intelligenza. Era stato lui che aveva insegnato ai membri del suo clan il modo di cacciare animali di una certa stazza e aggressività. Aveva trovato il sistema per costruire delle trappole: profonde buche in cui cadevano le prede, e aveva capito che alcuni animali, spaventati dalle urla e dal fracasso prodotto dal gruppo dei cacciatori a lui fedeli, si sbandavano, e potevano, così, essere spinti verso dirupi, dove precipitavano. Poi, erano aggrediti con lancio di pietre e colpi di lancia con punta in sélce, o bastoni appuntiti e resi più resistenti con il fuoco, fino a ridurre la preda sfinita dalle ferite e dalla perdita di sangue. Solo allora il gruppo di cacciatori s’avvicinava e finiva l’animale, che sarebbe stato trasportato nella caverna per cibarsene, mentre le donne si occupavano delle pelli, facendole asciugare al sole, battendole con pietre e, qualche volta, masticandole per renderle più morbide, cucendole con aghi fatti d’osso, e usando nervi d’animali, preparando, così, nuove protezioni per il corpo contro le intemperie e il gran freddo provocato anche da quella cosa bianca che magicamente scendeva dal cielo e ricopriva tutto, rendendo il paesaggio ovattato e silenzioso. Quando questo accadeva, tutta la tribù alzava gli occhi alla volta celeste, meravigliata. Pensava a qualche forza sopranaturale, a qualche divinità misteriosa che, in ogni caso, pur coprendo tutto alla vista e fermando la produttività della natura, dava la possibilità di caccia, poiché gli animali lasciavano chiare impronte del loro passaggio e i cacciatori, seguendole, potevano procacciarsi altro cibo. Madùk era orgoglioso di queste sue azioni e quando rientrava con una preda catturata in tal modo, manifestava tutta la sua forza emettendo diversi suoni gutturali accompagnati da balzi gioiosi, quasi ad elevarsi sopra gli altri...e se la preda era dotata di corna, alle quali attribuiva poteri magici, le tratteneva come trofeo, ponendole in bella vista in qualche incavo della caverna.
Ma quel mattino, dopo il risveglio, aveva scoperto che un suo simile non si era svegliato dal sonno. Lo scosse più volte, lo girò e rigirò; cercò, sul corpo esamine, non trovandone, segni di ferite, ma alla fine comprese che Aràk non reagiva più, era morto! Era la prima volta che capitava nel suo clan. Aràk era un abile cacciatore e un ottimo arrampicatore di alberi, faceva così per avvistare prede lontane, in movimento. Aràk aveva, anche lui, diversi trofei di caccia e li conservava gelosamente. Qualche volta, nelle notti di luna piena, quando tutto il clan all’esterno della caverna, attorno ad un vivo fuoco, danzava brandendo le armi per la caccia, con urla e suoni prodotti battendo dei bastoni su tronchi di legno abbandonati nei dintorni, inneggiava alla signora della notte chiara, alla dèa pallida, lui, Aràk, indossava questi trofei: corna di cervo, zanne di cinghiale, denti di lupo, artigli d’orso... come collane o appoggiandoli sulla testa, mimando le movenze dell’animale ucciso, per incorporarne la forza e propiziarsi la prossima caccia. Era una scena suggestiva, contornata dalle migliaia di splendenti faville sprigionate dal fuoco, che s’innalzavano fitte verso il chiarore della notturna dèa bianca. Ma nella Preistoria, le emozioni che gli uomini percepivano erano magiche, misteriose... Così ricordava Madùk mentre con alcuni componenti del clan, donne comprese, scavavano una buca in un riparo sotto una roccia. Lo aveva visto fare, nascosto in un fitto bosco, da una tribù che viveva ad un giorno di cammino dalla sua caverna. Terminato di scavare, Madùk, con qualche gesto accompagnato da alcuni fonemi brevi e duri, fece portare il corpo del compagno nei pressi della fossa, comandò alle donne di prendere i trofei e le armi; depose il corpo adagiandolo su di un fianco, come se Aràk dovesse dormire, pose vicino i trofei, le armi, gli utensili. Poi la fossa fu ricoperta, e alcuni massi di pietra, sormontati da alcuni trofei di animali tanto cari ad Aràk, ne segnavano il luogo. E mentre il clan al completo iniziava un rito propiziatorio danzando e “ululando” verso la chiara dèa, Madùk si soffermò qualche istante, alzò lo sguardo verso il cielo a cercare il pallido disco notturno e mentre il chiarore penetrava i suoi occhi... s’accorse che una goccia bagnava la ruvida e provata pelle della sua faccia. Rimase sorpreso da questa cosa nuova, che non gli era mai successa; ripulì il viso con un gesto veloce, ma conscio.

Cosa poteva essere, Madùk? Una reazione affettiva, o l’inizio del sentimento umano?