Comunicazione & Forme



 

 

 

 


Il Racconto del Mese

< Novembre 2008   >

UN CAFFE’… particolare

di Andrea Manca

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Autore - ANDREA MANCA

Non c’era dubbio che le sue gesta avessero raggiunto negli anni connotati francamente sconcertanti e che erano andati ben oltre il limite che separa quello che comunemente si definisce «scrupolo» o «pignoleria» dalla vera e propria condotta maniacale.
L’innocente passione per il cibo raffinato, l’alta cucina, l’eleganza della tavola e il servizio ineccepibile si era trasformata gradualmente in una sfrenata e quasi morbosa attrazione per qualsiasi dettaglio, anche quello apparentemente più insignificante, che avesse a che vedere con l’universo della ristorazione ai massimi livelli.
Collezionava guide e repertori di tutti i migliori ristoranti italiani, purché – attenzione! – catalogati dagli esperti o sedicenti tali con almeno tre forchette o simbologie analoghe, scartando a priori e senza appello l’immensa platea di tutti gli altri ristoranti, magari validissimi anch’essi, ma sfortunatamente ritenuti indegni dalle guide più accreditate. Procedeva con cadenza regolare a visitarli tutti, uno dopo l’altro. Talvolta in compagnia, più spesso da solo, comunque sempre a sue spese, verificava con puntiglio scientifico la correttezza delle relazioni e la rispondenza delle valutazioni riportate nei sacri testi con la realtà dei fatti.
Il suo hobby appariva ai più senz’altro originale, se non eccentrico, e nella cittadina in cui viveva si registravano quasi in misura equanime commenti di plauso e commenti di critica al suo bizzarro modo di fare.
A certi, non pochi invero, il suo collezionare ristoranti su ristoranti, situati nelle località più disparate e lontane dello stivale, appariva quantomeno invidiabile e addirittura sintomo inequivocabile di grandeur e di savoir vivre. Per questa frangia di entusiasti sostenitori la sua condotta era indiscutibilmente lodevole e già si parlava di lui come di un autentico «trend-setter» in grado di spostare l’orizzonte del costume oltre i limiti concessi alla gente comune: un dandy alla Oscar Wilde, forse un guru, certamente uno che «aveva capito».
Per altri, al contrario, gettare via centinaia di euro per una cena in uno dei templi della sacra arte culinaria era inaccettabile e perfino immorale: raffinata quanto si vuole, era pur sempre una cena, solo e soltanto una cena. Non c’era bisogno di argomentare, il discorso si chiudeva secco con una stroncatura senza la minima possibilità di appello: soldi buttati.
Proprio così, soldi buttati: alla faccia della crisi economica, della recessione, dell’inflazione, dei disoccupati, del degrado sociale e di tutti i dannati crismi dello sfacelo nel quale - almeno così recitavano tutti i santi giorni giornali e televisioni – il paese andava precipitando. Ma con la crisi che c’è – gli si obiettava – tu vai a spendere cinque, seicento euro tra aereo, taxi, hotel e naturalmente cena al ristorante tres chic? Sei matto da legare, un pericolo per te stesso e per gli altri, ai quali sbatti in faccia – forse involontariamente, d’accordo – comportamenti che si fa fatica a non catalogare come snob e sprezzanti. E poi, basta con questa haute cuisine del cavolo: vuoi mettere una bella pasta e fagioli fatta da mamma? Altro che le tue cruditée, i tuoi consommé, i tuoi pre-appetizer e post-sorbetti…
Insomma, chi per un verso, chi per un altro, ai suoi conoscenti non era senz’altro sfuggita l’atipica attività che il ragioniere svolgeva negli spazi che il suo impiego in un ente pubblico gli permetteva.
L’attenzione che lo circondava, pur proveniente da una realtà in assoluto ristretta numericamente - i suoi concittadini, appunto - era tuttavia sufficiente per lusingarlo, eccitando piacevolmente la sua autostima e facendolo sentire una sorta di eroe fuori dagli schemi ed anzi un pionieristico creatore di schemi nuovi.
Questi ed altri pensieri frullavano vorticosamente nella sua mente quella fredda sera di fine febbraio mentre varcava con baldanza la soglia del leggendario locale milanese, cattedrale della ristorazione internazionale, che ancora mancava alla pur nutrita collezione di «tre forchette» dell’intrepido contabile, novello Ulisse sulle perigliose rotte dell’alta arte culinaria.
Aveva scelto «Il Gatto Nero» sia per l’ovvia ragione che l’obbligava a riempire comunque qualsiasi casella vuota nel suo immaginario album delle figurine, sia perché doveva al contempo celebrare una sera molto speciale: la cena del suo quarantesimo compleanno. Quaranta, proprio così.
Quale modo migliore di festeggiare per uno come lui, se non regalarsi una cena di gran classe in uno dei massimi ristoranti al mondo: ma scherziamo?
Si era occupato di pianificare con cura l’evento nei mesi precedenti, valutando più possibilità e trovando con pazienza le soluzioni più adatte ai piccoli e grandi problemi che nella sua visione meccanicistica delle cose andavano affrontati e risolti. La prenotazione del tavolo e la sua conferma nei modi stabiliti, la scelta dell’orario di inizio del rito e la conseguente necessità di adattare la tempistica agli orari degli aerei e dei mezzi che avrebbe utilizzato per raggiungere il locale, la distanza dell’hotel tale da permettergli di spostarsi a piedi in modo da preparare degnamente il fisico alla degustazione e per consentirgli una digestione adeguata al termine della cerimonia. Ma i preparativi erano tutt’altro che esauriti: bisognava scegliere un‘appropriata posizione del tavolo all’interno della sala, non centrale ma neppure troppo isolato, lontano dall’ingresso ed allo stesso tempo dalle cucine e dai servizi. Per non parlare della scelta degli abiti da indossare quella sera, dei giusti abbinamenti di tessuti e colori; arrivava a valutare accostamenti persino con il tono delle tovaglie e delle pareti e cercava di non eccedere né in ricercatezza, né in semplicità.
Si era documentato come sempre col massimo scrupolo, visionando sulle guide e sui blog presenti in rete le immagini del locale, prospettando con attenzione tutti i possibili scenari, giungendo a ipotizzare varie soluzioni anche con riguardo alle luci e ai profumi più idonei alla serata. Aveva accertato l’assenza nel locale di accessori o rivestimenti contenenti pelo d’animale, per lui estremamente pericoloso a causa di una fastidiosa allergia che già in passato gli aveva procurato crisi respiratorie anche serie, e di questo aveva dettagliatamente avvertito la direzione del locale all’atto della prenotazione.
Aveva scelto per la gran serata toni di classe, fragranze leggere ma decise, prestando la massima attenzione ai dettagli quali la montatura degli occhiali, il tipo di cravatta, il giusto calzino: tutto doveva essere perfetto. Anzi, più che perfetto: era o non era il suo quarantesimo anniversario?
Accolto all’ingresso da un distinto addetto alla reception che si preoccupò di verificare la prenotazione e di aiutarlo a sistemare il cappotto in loden nella saletta guardaroba, fu accompagnato con una certa teatralità nella sala sottostante.
Accomodatosi al suo tavolo, prese atto con moderato compiacimento dell’ineccepibile mise en place, ma fu colto da un brivido di imbarazzo nel verificare che il colore della tovaglia risultava leggermente più chiaro di quanto appariva dalle immagini visionate sulla guida. La scelta della sua camicia si era basata quasi completamente su questo elemento, il che determinò un’incontrollabile inquietudine iniziale, presto accantonata.
Inquietudine che rimontò qualche istante dopo, quando rifiutò con cortesia l’invito ad aprire la serata con un calice di champagne Pommery Louise del 1998, così come proposto dal giovane sommelier, forse troppo interessato a «piazzare» bottiglie d’alto costo a clienti meno esperti del preparatissimo neo-quarantenne: «Andrà benissimo un Taittinger d’Ales del 1997, al calice»
«Verifico subito in cantina, signore»
«Non si preoccupi di cercarlo: il Taittinger d’Ales non esiste, e comunque il 1997 non è stata un’annata delle migliori per i blancs de blancs» rispose gelido, chiedendo subito dopo di essere servito da un altro sommelier.
La serata aveva già dato due segnali negativi e soprattutto li aveva dati proprio in apertura, facendolo scivolare in uno stato di tensione emotiva che, come è comprensibile, in parte guastava l’atmosfera di gioia che avrebbe meritato una persona in procinto di festeggiare il proprio compleanno, come aveva sottolineato con chiarezza all’atto della prenotazione.
Fortunatamente ci pensarono le sontuose claires d’Oléron servite su un letto di ghiaccio a rilanciare piacevolmente il pasto: adorava le ostriche e possedeva una conoscenza enciclopedica sulle diverse varietà, permettendosi raffronti e dotte disquisizioni che avrebbero messo in croce chiunque. Anche gli altri antipasti si rivelarono all’altezza: fegato grasso allo spiedo con pane al cacao e nespole – piatto sublime che veniva di solito preparato esclusivamente per due commensali, ma che lo chef aveva eccezionalmente cucinato solo per lui dopo lunghe suppliche telefoniche nelle settimane precedenti – e il famoso, forse anche al di là dei propri meriti, musetto di maiale fondente con scampi e pomodori verdi. Per non rovinarsi l’appetito, rimandò indietro la marinara in foglie con verdure croccanti, altro cavallo di battaglia dello chef che tutte le guide classificavano come l’astro nascente che avrebbe dominato la ristorazione d’alto bordo per il prossimo ventennio.
I camerieri, messi in allarme dall’episodio del sommelier, lavoravano al massimo delle proprie capacità nel timore di un’umiliante ramanzina, che pareva aleggiare imminente intorno al tavolo. Solleciti, attenti, premurosi, cercavano di non commettere sbavature nel servizio e di non infilarsi in dibattiti senza vie di fuga con l’inquietante ospite, la cui fama si andava diffondendo all’interno della sala.
Fu poi il turno dei primi, uno più invitante e ricercato dell’altro: eccellente il risotto allo zafferano con midollo alla piastra, ottimo anche quello ai pinoli – pur se l’olio ligure utilizzato non parve esattamente di olive taggiasche, più appropriato – mentre l’assaggio dei tanto celebrati spaghetti ai ricci di mare e caffè non trovò del tutto soddisfatto il nostro «gastronauta», come amava definirsi in tono compiaciuto quando spavoneggiava nelle discussioni con gli amici. Ebbe da eccepire anche sulla qualità del caffè impiegato nell’insolito abbinamento - un blu giamaicano di montagna – un’ottima miscela ma del tutto inadatta, ma non proferì mezza parola, limitandosi ad annotare sul suo Moleskine un sintetico appunto di biasimo. La scena non sfuggì ai camerieri, ormai nel panico più totale: chi era l’ospite al tavolo sedici? Un critico, un giornalista specializzato, un ispettore?
Le notizie erano giunte pure in cucina, per cui tutti in quel locale sentivano a questo punto di essere nel mirino e avevano concentrato il massimo delle proprie energie fisiche e mentali su quel dannato tavolo. Proprio tutti, dall’addetto alla reception all’intero staff di camerieri, cuochi, aiuto-cuochi. Persino i lavapiatti: si era infatti sparsa la notizia, in realtà infondata e diffusa scherzosamente da uno dei camerieri, che il misterioso ospite si fosse lamentato della temperatura inappropriata di un bicchiere appena lavato.
Si arrivò quindi ai secondi, tra i quali con aria di sufficienza decise di ordinare il celeberrimo quanto costosissimo rombo chiodato al forno in crosta di cacao con piselli, fave e rabarbaro: con sommo stupore, trovò il piatto assolutamente delizioso e di gran lunga superiore alle proprie aspettative, di certo non banali. La qualità delle materie prime era indiscutibile e gli abbinamenti degli ingredienti semplicemente fantastici. Tuttavia, la sua insopprimibile meticolosità lo portò quasi senza volerlo ad una sgradevole diatriba con il cameriere intorno alle varietà dei rombi presenti nelle acque nostrane.
Monumentale anche l’astice blu allo spiedo con barbabietole e porri, discreto – ma non all’altezza delle portate precedenti – il rognone di vitello con ricci di mare e spugnole bianche, sul cui grado di cottura l’ineffabile protagonista ebbe qualcosina da annotare sul suo taccuino.
I vini da accostare ai vari piatti furono scelti valutando ogni caratteristica organolettica degli ingredienti delle pietanze servite, non lasciando al caso neppure il tipo di bicchiere e la sua giusta collocazione.
Il nuovo sommelier ogni volta attendeva tremante il responso e quegli attimi di silenzio nei quali l’ospite annusava ed assaporava il vino appena presentato sembravano durare un’eternità. Il suo teatrale cenno di approvazione consentiva ai presenti in febbrile attesa la ripresa della normale funzione respiratoria; fortunatamente non si verificarono ulteriori incidenti di percorso e tutti i vini prescelti - tranne un Albert Mann Altenbourg del 1996, prestigioso tokay pinot gris alsaziano, la cui temperatura fu giudicata eccessiva - si dimostrarono validissimi.
La cena si avviava alla naturale conclusione in gran crescendo: la carta dei dolci era infatti ricchissima e proprio in virtù di essa il locale era riuscito a scalare due posizioni nelle classifiche stilate quell’anno dalle principali guide specializzate. Lo chef per i dolci era famosissimo e conteso a suon di bigliettoni dai più grandi ristoratori europei; si vociferava addirittura di un suo storico rifiuto ad un insigne capo di Stato di un paese del Golfo Persico appena qualche settimana prima.
Il gastronauta amava particolarmente i dessert e, pur non avendo disdegnato fino a quel punto i sontuosi piatti serviti, si era di proposito limitato nelle quantità al solo fine di potersi sbizzarrire con il gran finale.
Iniziò quindi con delle sfiziosissime crocchette di cioccolato fondente, chinotto e caviale, che trovò angeliche; non era finita lì, perché arrivò pure una sontuosa e delicatissima crema di cioccolato al latte, frutto della passione e banana, seguita con grande effetto coreografico da una porzione di ravioli di fragola e fragoline che il sommelier completò versando nel piatto di portata direttamente dalla bottiglia uno Springbank Bourbon Wood, rarissimo whisky scozzese single malt 12 anni: combinazione azzeccatissima, quasi suprema. Valutò tutto fantastico, ingegneristica combinazione di creatività e tradizione, anche se non gli riuscì di trattenere una critica neanche tanto velata al sommelier per la scelta del whisky: probabilmente si sarebbe ottenuto un gusto più adatto al grado di maturazione delle fragoline impiegando un Laphroaig 15 anni maturato in botti di rovere bianca americana. Il sommelier incassò l’accusa senza battere ciglio, nel timore che una replica avrebbe potuto significare una strigliata ancora più severa; del resto, in quel momento, vuoi per la stanchezza, vuoi per la difficoltà obiettiva dell’argomento, non era neppure certo che esistesse davvero un whisky Laphroaig 15 anni e si ritirò facendo buon viso a cattivo gioco, allontanandosi dal tavolo in punta di piedi.
L’alternanza continua delle emozioni - scandita dalla successione delle portate e dei relativi vini – e il conseguente accavallarsi di giudizi molto positivi con altri meno lusinghieri, se non addirittura di vera e propria stroncatura, avevano letteralmente spossato l’ospite della serata, oltre all’intero entourage del ristorante.
Era confuso e non sapeva realmente come considerare la serata del suo compleanno al Gatto Nero: un successo o un autentico flop?
È vero, in alcuni momenti aveva messo impietosamente a nudo carenze che dal suo punto di vista erano imperdonabili, ma doveva anche riconoscere che su certi passaggi aveva toccato il cielo con un dito e che, se esisteva la perfezione nelle arti culinarie, stasera c’era andato molto vicino. In altri ristoranti il giudizio era stato più semplice, ma non stasera. Un carattere metodico come il suo non riusciva ad accettare un risultato interlocutorio: il mondo per lui era bianco o era nero e i mezzi toni non erano ammessi. Doveva uscire dal ristorante con un giudizio netto.
Decise quindi di lasciare al momento conclusivo del pasto – il fatidico caffè – la sentenza sul ristorante. Senza appello, come sempre.
Il cameriere, cercando nell’espressione del viso dell’ospite un segno di assenso, si avvicinò al tavolo con titubanza. Fece per porgergli la carta dei caffè e quella dei distillati con i quali era consuetudine del titolare del ristorante chiudere la serata e magari passare per la sala a braccetto con lo chef per salutare gli ospiti. La carta era nutrita e tutte le guide segnalavano la disponibilità di autentiche rarità, soprattutto per quanto riguardava i caffè: miscele preziose ed introvabili provenienti da ogni angolo del globo, che venivano di continuo rifornite dai maggiori distributori internazionali. I prezzi erano naturalmente adeguati al livello qualitativo, ma lui non aveva mai fatto questioni in merito, né aveva intenzione di iniziare proprio quella sera.
Lesse e rilesse la lista, manifestando con l’intensità dello sguardo o con lievi movimenti del capo il proprio compiacimento ogni volta che la sua attenzione veniva a cadere su una miscela rara o comunque di suo gradimento. Non poteva sbagliare, ne andava del successo della serata, per cui la scelta tardava ad arrivare.
Poi, l’illuminazione.
Chiese di poter parlare direttamente col titolare.
Il cameriere replicò timidamente: «Chiedo scusa, signore, ma c’è qualcosa che non va bene nella lista? Non vuole più prendere il caffè?»
«Tutt’altro, ma, sia gentile, data la particolarità della mia richiesta, preferirei conferire personalmente con il titolare, se si degna di raggiungermi al tavolo»
Il suo tono di voce non ammetteva repliche e così il cameriere si allontanò piuttosto allarmato per chiedere al titolare di avvicinarsi.
Quest’ultimo, al quale erano giunte durante la serata voci insistenti sull’insolito ospite, decise di sottostare alla richiesta e con sicurezza mista a una forte dose di curiosità scese in sala dal suo ufficio situato nel piano superiore. Dopo i soliti educati convenevoli, presentazioni, strette di mano e via discorrendo, venne al dunque: «Mi dicevano di un suo particolare desiderio. La nostra lista dei caffè, come avrà visto, è piuttosto vasta e comprende aromi rarissimi e probabilmente unici»
«Ho visto, ho visto e mi complimento. Ma la mia richiesta è, come dire, piuttosto insolita e temo di mettervi in serie difficoltà nell’esprimerla»
«L’aggiornamento della lista è quotidiano e non temiamo, mi creda, falle nel magazzino tali da non poter soddisfare qualsiasi richiesta. Come posso accontentarla, dunque? »
«Vorrei un Kopi Luwak»
Il Kopi Luwak è senza ombra di dubbio il caffè più raro del pianeta e per questo anche il più costoso. La sua produzione avviene esclusivamente in Indonesia e non supera i cinquanta chilogrammi annui, da cui l’assoluta rarità. L’esclusività non risiede tanto nella scarsità della tipologia della pianta o nella sua insolita varietà - che può essere sia l’Arabica che la Robusta, anche se gli esperti preferiscono la prima - quanto nell’incredibile metodo di ottenimento. Il Kopi Luwak viene infatti prodotto impiegando le bacche rosse del caffè ingoiate, digerite ed evacuate da un piccolo mammifero selvatico simile allo zibetto, il Luwak appunto, nel cui apparato digerente i succhi gastrici, ricchi di enzimi particolarmente zuccherini, operano una sorta di tostatura naturale dei preziosi chicchi. Dopo la loro espulsione, la raccolta avviene immediatamente prima che i chicchi digeriti si deteriorino, quindi segue la tostatura secondo la procedura abituale. I simpatici Luwak non vengono allevati ma vivono liberi nella boscaglia, per cui la raccolta delle loro feci avviene manualmente con estrema difficoltà e i quantitativi non possono che essere limitati. Il prezzo molto elevato del Kopi Luwak non è giustificato solo dalla sua rarità, ma – a detta di coloro che lo hanno provato – soprattutto dal suo fantastico gusto, ricco di note floreali, con toni di cioccolato, mandorla e caramello.
La richiesta apparve all’ospite del tutto pertinente nel contesto di una cena di quel livello: per come si erano svolte le cose fino a quel momento, non soddisfare il suo desiderio, eccentrico ma ai suoi occhi più che legittimo, significava inesorabilmente una sentenza di condanna del ristorante. Questo non poteva permetterlo, non la sera del suo quarantesimo compleanno.
«Un Kopi Luwak, signore?» rispose balbettando il titolare, cercando un sostegno nello sguardo dello chef.
«Sì, lui. Non l’ho letto sulla lista, ma ho pensato anche ad un gesto particolarmente raffinato da parte di chi l’ha redatta. Un modo, diciamo così, di non offendere l’ospite non sufficientemente attrezzato e allo stesso tempo di non stuzzicare inutilmente la volgare curiosità del cliente arricchito ma senza un filo di classe, desideroso non tanto delle deliziose qualità del Kopi Luwak, quanto solo di stupire i suoi commensali con una scelta molto costosa»
«Esatto, signore. Il Kopi Luwak non è in lista ma per un cliente così speciale possiamo fare uno strappo. Le chiedo solo qualche minuto di pazienza per poterlo preparare degnamente. Nel frattempo, le metto a disposizione la carta dei distillati, nella quale spero troverà qualche scelta di suo gradimento, di cui può servirsi liberamente»
L’ospite si mostrò raggiante e sembrò accettare di buon grado la proposta, iniziando a scorrere la lista, dove facevano bella mostra di sé pregiatissime qualità, tra cui scelse un cognac Hennessy Paradis extra rare.
Non avevano il Kopi Luwak al Gatto Nero, ma il titolare conosceva uno dei due posti in Italia in cui l’avessero mai servito, un prestigioso bar di Milano di proprietà di un suo amico. L’altro era un bar di Parma, troppo lontano.
Lo contattò immediatamente, spiegandogli in pochi istanti la bizzarra situazione. Neanche il tempo di mettere giù la cornetta del telefono che un fattorino trafelato consegnava un pacchetto della preziosa miscela nelle mani del cuoco del Gatto Nero.
Mentre in sala proseguiva la degustazione dei costosi distillati, con il sommelier che dava il meglio di sé stesso nel rispondere esaurientemente alle domande provocatorie dell’ospite in modo da guadagnare qualche altro minuto di tempo, nelle cucine si dava il via alla frenetica preparazione del rarissimo caffè secondo tutti i crismi.
Il cameriere fece finalmente il suo ingresso in sala sorreggendo un elegante vassoio in argento sul quale, adagiati su una piccola tovaglia bianca ricamata, stavano la tazzina fumante e una serie di piccoli recipienti in ceramica contenenti vari tipi di zucchero e dolcificanti diversi. Su un altro vassoio, a seguire, accompagnati da una coreografica composizione di piccoli fiori secchi, giunsero alcuni biscottini e dolcetti dall’aspetto invitante.
«Ecco il mio Kopi Luwak, finalmente»
Non metteva mai alcun tipo di dolcificante nel caffè, in omaggio alle sacrosante regole di tutte le pubblicazioni in materia, che precisavano nei minimi dettagli il cerimoniale per accostarsi alla magica bevanda, dalle modalità di preparazione fino alla corretta temperatura della tazzina. In realtà non gli piaceva amaro, ma non avrebbe mai potuto contravvenire a quanto sancito dai sacri testi e quindi lo beveva così. Spostò quindi con un gesto deciso i vari recipientini e non degnò di uno sguardo i dolcetti d’accompagnamento.
La tazzina emanava un caldo aroma intenso e avvolgente, che richiamava sentori tropicali, di fiori, di foreste lontane. La temperatura era quella giusta, per quanto i presenti si aspettassero che l’ospite da un momento all’altro tirasse fuori da qualche taschino un termometro per verificarla con precisione assoluta.
Dopo averne assaporato il fragrante aroma ancora una volta, soffermandosi ad annusare i magici effluvi con sapienti movimenti del capo, portò finalmente la tazzina alle labbra.
Si soffermò per un lunghissimo attimo a gustare il primo sorso, esprimendo con i tratti del viso uno stato d’animo che, se non di estasi, era in ogni caso qualcosa di molto simile.
Nel vederlo apparentemente soddisfatto, il titolare e i camerieri che assistevano in silenzio alla rappresentazione tirarono all’unisono un rumoroso sospiro di sollievo, lasciando finalmente andare la tensione in cui avevano vissuto quell’indimenticabile serata.
Quand’ecco, inaspettato, il colpo di scena.
L’ospite, in preda ad un improvviso ed inarrestabile spasmo respiratorio, iniziò a tossire con violenza inaudita, passando nel giro di pochi attimi da un acceso colorito rosso intenso ad un impressionante pallore cadaverico. La crisi durò forse una decina di secondi, che a tutti parvero interminabili, fra lo sconcerto generale dei presenti, dall’intero staff del ristorante fino all’ultimo degli ospiti che affollavano gli altri tavoli del Gatto Nero. Tutti, proprio tutti, rimasero letteralmente paralizzati dall’imprevedibile piega assunta degli eventi.
Rovesciando sul pavimento di marmo di Carrara l’intero servizio da caffè, con la tazzina di Kopi Luwak ancora piena per metà che nel contatto col suolo si frantumò in mille pezzi, l’ospite più competente ed allo stesso tempo più rognoso mai capitato da quelle parti, protagonista indiscusso per l’intera durata della cena, si accasciò pesantemente sul tavolo.
Urla, squilli di telefonini, luci blu lampeggianti, sirene, infermieri, poliziotti, signore impellicciate che svenivano, qualcuno che ne approfittò per svignarsela senza saldare il conto: la mezz’ora successiva fu un tourbillon caotico completo.
Un’ambulanza chiamata dal titolare trasportò d’urgenza lo sventurato alla clinica San Carlo Borromeo, fortunatamente non troppo distante dal Gatto Nero. Durante il percorso, il sommelier e uno dei camerieri, saliti anch’essi sull’automezzo su invito perentorio dei medici accorsi, pur sconvolti dagli avvenimenti descrissero per filo e per segno ai sanitari i sintomi - apparsi da subito quelli di una vistosa crisi allergica - e il succedersi dei vari cibi, fino appunto al caffè finale, sul quale s’incentrarono da subito i sospetti. Lo stesso sommelier ricordava infatti della particolare insistenza dell’ospite nel segnalare la propria allergia al pelo d’animale sin dal momento della prenotazione, mentre il cameriere riferì che sul punto era poi tornato scherzosamente più volte durante la cena. Appena giunto alla clinica, fu prontamente assistito e ricoverato in sala di rianimazione, dalla quale fu però dimesso quasi immediatamente, vista la prodigiosa ripresa manifestata sin quasi dal suo ingresso.
«La severa crisi respiratoria del soggetto ricoverato in data odierna presso la nostra struttura» – recitò gelidamente il bollettino medico diffuso in nottata dai sanitari - «risulta da collegarsi a pregressa sindrome allergica nei confronti di componenti presenti nel pasto consumato, presumibilmente da individuarsi in reperti di pelo di animale».
Pelo di animale? Grazie alle testimonianze raccolte, non fu complicato fare due più due e risalire al fatidico Kopi Luwak che, proprio in virtù del suo originale - chiamiamolo così - processo di fabbricazione, conteneva notoriamente minuscoli frammenti del pelo del piccolo mammifero asiatico che, un po’ come i nostri gatti, era solito pulirsi leccandosi a lungo il manto: la spiegazione della crisi fu quindi ricondotta senza dubbio alcuno a quella maledetta tazzina di caffè.
Il paziente si riprese senza la necessità, in fin dei conti, di nessuna particolare terapia; egli stesso rifiutò di sottoporsi a farmaci cortisonici o simili, dando dimostrazione di quella che a tutti sembrò null’altro che una forte fibra.
La mattina seguente accettò di buon grado la visita di cortesia del titolare del Gatto Nero, che, nell’intento di salvaguardare il buon nome del locale ed anzi approfittarne per dare una mano di vernice fresca alla propria fama di persona di gran stile, si premurò di rifondergli il danno per l’inqualificabile incidente. Fu poi il turno del personale del ristorante che, in verità, avrebbe al contrario auspicato una prognosi meno fausta per l’ospite più pignolo e sprezzante che fosse mai capitato dalle loro parti. Anche qui ettolitri di ipocrisia, grandi strette di mano e auguroni di pronta ripresa si sprecarono.
Una volta che tutti furono usciti dalla stanza, il paziente chiese di poter avere un telefono e un libro che teneva nella tasca del cappotto in loden. Alexandra, la biondissima e giunonica infermiera lituana, gli porse quanto richiesto e rimase sulla soglia in paziente attesa di un suo cenno.
Dopo aver consultato attentamente il libro – una celebre guida con i «tre forchette» dell’anno – compose lentamente un numero:
«Pronto, il ristorante L’Astice Rosso? Vorrei prenotare un tavolo per cena per venerdì prossimo. Sì, alle 21 andrà benissimo. Per uno, come sempre»
Posato il cordless sul tavolino accanto al letto, alzò lo sguardo verso l’ingresso della stanza, indugiando per un attimo sul generoso décolleté di Alexandra:
«Allora, arriva o no il mio caffè?».

Andrea Manca