Comunicazione & Forme

 

                    www.formedicomunicazione.com                             

Relazioni Tesi e Saggi

 

 

Email@

 

 

 

UNIVERSITA' CATTOLICA DEL SACRO CUORE
FACOLTA' DI LETTERE E FILOSOFIA

CORSO DI LAUREA IN LINGUAGGI DEI MEDIA

curriculum “Teoria e pratica dell’informazione”

 

 

Corrado Alvaro giornalista. Una rilettura alla luce

delle “Lezioni americane” di Italo Calvino

 

 


Relatore: Prof. Giovanni Santambrogio
Correlatore: Prof. Enrico Elli

Tesi di Laurea di
Marianna Vazzana


Anno Accademico 2004 - 2005

 

Introduzione

Corrado Alvaro è un personaggio conosciuto più come scrittore che come giornalista: per molti è solo “l’autore di Gente in Aspromonte e di altri racconti”. Eppure, la sua è stata una vita da giornalista: “primo grande ‘inviato’ del giornalismo italiano” , ha fatto scorrere la sua penna per i quotidiani prima ancora che per i romanzi; addirittura, molte opere narrative prendono vita dagli articoli ([…] “Gente in Aspromonte non è il frutto di un’improvvisa fulminazione lirica: personaggi, atmosfere, squarci di paesaggi, vicende del mondo preindustriale calabrese si erano più volte affacciati, nel corso di un decennio, negli scritti giornalistici […].” ).
Primo obiettivo di questo lavoro è evidenziare, dopo essersi soffermati un istante su Corrado Alvaro uomo osservando da vicino la personalità e la vita, la sua vasta produzione giornalistica, offrendo una panoramica di tutte le testate per cui ha lavorato nel corso della vita (sono quasi un centinaio) e concentrandosi in modo più specifico sulle sue collaborazioni in tre principali quotidiani italiani: Il Mondo, il Corriere della Sera e La Stampa.
Il cuore della tesi è l’analisi di alcuni articoli tratti dai giornali sopra citati, di cui Corrado Alvaro è autore. Qui nasce l’accostamento con Italo Calvino: nel libro Lezioni americane sono raccolti cinque saggi, di cui lo scrittore avrebbe dovuto discutere nel corso di alcune conferenze da tenere nella prestigiosa Università americana di Harvard. Era la prima volta che le “Norton Lectures” venivano proposte a uno scrittore italiano. Ogni saggio ha per tema una parola, un concetto, su cui Calvino riflette: leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità, molteplicità e, ogni idea, racchiude un valore che lo scrittore desidera tramandare nel futuro. Secondo obiettivo di questa tesi è dimostrare che gli scritti giornalistici di Alvaro possono essere analizzati alla luce delle cinque categorie. A ciascun termine sono state associate delle tematiche ricorrenti negli scritti giornalistici del sanluchese e particolari modalità di scrittura: per la leggerezza sono stati selezionati testi in cui l’autore si sofferma sulla figura della donna; si fa anche riferimento al suo stile volto a osservare spesso le situazioni con sguardo ironico, discutendo così con “leggerezza” anche di argomenti seri, come la crisi dei valori. La rapidità fa pensare ai molti viaggi intrapresi da Alvaro nel ruolo di inviato: diventa per i lettori testimone di realtà lontane e diverse, riflettendo però di volta in volta sulle particolari esperienze compiute; il modo di scrivere è quindi incentrato su questo doppio aspetto. Calvino, a proposito del valore dell’ esattezza, parla di “peste del linguaggio” (riferendosi al fatto che oggi si tende a esprimersi con pochi, usuali, termini): c’è una parola adatta per ogni circostanza, “esatta”, e bisogna saper sfruttare la varietà e le sfumature della propria lingua; Alvaro mostra di riuscirci. Come antidoto alla malattia, Calvino propone la Letteratura: gli articoli considerati sono quelli incentrati su questo argomento. Per quanto riguarda la visibilità, si è fatto riferimento a dei pezzi giornalistici sul cinema e sul teatro; importante per Calvino è saper utilizzare una scrittura icastica: spesso si ha l’impressione, leggendo i testi di Alvaro come quelli di qualunque altro bravo scrittore, di “vedere” nella propria mente ciò che si legge sulla pagina. La molteplicità fa pensare a una grande rete, come Internet, in cui tanti nodi si collegano gli uni gli altri: associati a questo valore sono gli articoli in cui il sanluchese assembla nello stesso testo documenti o pagine diverse (“Documenti di vita” e “Pagine diverse” sono i titoli degli scritti analizzati a proposito della molteplicità); la scrittura segue i collegamenti mentali e li rappresenta, a volte, anche graficamente sul foglio.
Questo lavoro si conclude con un’intervista al Dottor Franco Abruzzo, Presidente dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia e giornalista calabrese, come Corrado Alvaro.
Valorizzare l’opera giornalistica di Corrado Alvaro e analizzare alcuni articoli alla luce delle cinque categorie di Italo Calvino: tutto questo per fare in modo che il grande personaggio calabrese non sia dimenticato. “Era stato dimenticato, ma ora torna per riprendere il posto che gli spetta” .

1. L’UOMO CORRADO ALVARO

1.1. La personalità

Esiste in natura un minerale chiamato “Pietra di Bologna”; si tratta di una pietra particolare, ha una caratteristica originale: se rimane esposta al sole per diverse ore, una volta al buio può sprigionare la luce. I raggi la colpiscono e poi continuano a illuminare prendendo la sua forma.
Corrado Alvaro osserva sempre con attenzione quanto lo circonda, si sofferma sui fatti, sugli oggetti, sulle persone e, poi, restituisce al lettore l’immagine, vista però attraverso i suoi occhi. Come la Pietra di Bologna, il sanluchese immagazzina la luce e poi la usa per illuminare quanto lo circonda; il bagliore è trasmesso con le sue parole, le riempie e ne assume la forma. Arriva al lettore passando dentro di lui. “I suoi lettori sapevano sempre e subito cosa succedeva di nuovo e di importante nel mondo. Alvaro era andato a vedere di persona eventi e ambienti che interpretava con una sagacia che non finisce di stupire. […] Aveva letto quanto c’era in circolazione per conoscere la storia e la cultura dei popoli che visitava, ma si fidò anzitutto del proprio occhio. Prima le cose viste, poi quelle pensate [e infine scritte per i lettori]”. È questo il metodo che segue per fare chiarezza.
Sono trentacinque gli anni (dal 1921 al 1956) che Corrado Alvaro trascorre scrivendo per i giornali: anni di grandi cambiamenti, di sconvolgimenti per l’Italia ma anche per il resto del mondo. “Suppergiù dalla fine della prima guerra mondiale - che per lo scrittore calabrese è un ricco deposito di esperienze e di aneddoti - alla crisi del comunismo. In mezzo ci sono la marcia su Roma, il delitto Matteotti, la dittatura e il ventennio fascista (Africa, Spagna, seconda guerra mondiale), il nazismo, i lager, la Resistenza, l’esclusione delle sinistre dal governo, le battaglie contadine e operaie, la ‘questione meridionale’, il primo decennio democristiano, la sconfitta della ‘legge truffa’, la ripresa del dialogo fra cattolici e socialisti, i primi segni della società del benessere” . Per inquadrare la personalità di Corrado Alvaro, il suo modo di riflettere sugli eventi, bisogna considerare sempre il particolare momento storico all’interno del quale ciascun articolo si colloca: le idee sul cinema sono vicine al pensiero della scuola di Francoforte; alcune interpretazioni che oggi possono sembrare scontate non lo sono affatto se si pone attenzione al periodo della loro formulazione; nel corso del tempo il calabrese si trova a cambiare idee, sia in politica che in arte e, d’altro canto, però, “molte sue idee conservano oggi la capacità d’urto che avevano ieri […], un grande poeta ha sempre delle ‘idee fisse’. Alvaro ne ha parecchie per le quali si può dimenticare il giorno in cui le ha scritte” .
Evidente è poi il suo attaccamento ai valori di un tempo: la civiltà delle arti meccaniche concepita come negativa e la denuncia dei costumi sociali sempre più volgari sono temi ricorrenti nei suoi scritti giornalistici.
Ironia e sagge riflessioni spesso convivono nello stesso testo; Alvaro è anche in grado di passare da avvenimenti mondani a critiche teatrali e letterarie, da descrizioni del suo paese a evocazioni di miti: tutti segni della sua grande cultura, che gli consente di valutare in modo approfondito quanto accade.
Non bisogna infine dimenticare che Alvaro è giornalista ma soprattutto anche scrittore: in lui convivono queste due vocazioni ed entrambe contribuiscono a definirne la personalità.
Per comprendere gli scritti del sanluchese non si può prescindere da questi aspetti.

1.2. La vita

Corrado Alvaro nasce il 15 Aprile 1895 a San Luca, un piccolo paese sul versante jonico dell’Aspromonte in provincia di Reggio Calabria. È primogenito dei sei figli di Antonio Alvaro e Atonia Giampaolo. Il padre, maestro elementare, è fondatore di una scuola serale per contadini e pastori analfabeti; la madre proviene da una famiglia di piccoli proprietari. A San Luca trascorre un’infanzia felice, fortemente influenzato dal padre, dal quale riceve la prima istruzione e impara a conoscere profondamente la natura, gli uomini e la tradizione della sua terra. Nel Viaggio , scriverà: “Mi sono trovato a riordinare le mie cose come mio padre aveva fatto con le sue, ad affrontare la mia lotta come egli affrontò la sua, a considerare gli uomini come egli li considerava, a essere ugualmente meticoloso e ostinato, a essere felice a tenere in serbo una piccola cosa necessaria con l’amore stesso e la stessa fedeltà verso la natura e la Provvidenza…A un certo punto ritrovarsi lo stesso viso, rinvenire le stesse passioni, e…risentire nella nostra voce la sua, del padre. Tanto lavoro per sciuparsi ed essere diversi, e poi ritrovarsi come la pianta che ha in sé, come dice Campanella, la legge del suo frutto. A volte mi sorprendo negli stessi atteggiamenti morali”.
Terminate le scuole elementari, prosegue gli studi nel prestigioso collegio di Mondragone, a Frascati, una scuola d’èlite gestita dai Gesuiti, e comincia in questo periodo a scrivere poesie e racconti; dopo i primi cinque anni di ginnasio, viene espulso dall’istituto perché sorpreso a leggere testi considerati proibiti (L’Intermezzo di rime, di D’Annunzio). Frequenta l’ultimo anno di ginnasio nel collegio di Amelia, in provincia di Perugia, approdando infine al Liceo Galuppi di Catanzaro. Nel corso degli studi superiori si dedica con grande passione alla letteratura, approfondendo soprattutto le opere degli scrittori allora più noti e ammirati - Carducci, Pascoli e D’Annunzio - e compone lui stesso molti racconti e poesie. Esordisce con un opuscolo: Polsi nell’arte, nella leggenda e nella storia, saggio del 1912 che porta in calce la sua firma.
Nel 1914 pubblica le sue prime poesie sul Nuovo Birichino Calabrese e alcune traduzioni da Tagore nella Rivista d’Oggi.
Partecipa a manifestazioni interventiste, in seguito alle quali è arrestato per alcune ore, e organizza un numero unico contro la polizia: Bum!. A Gennaio del 1915 è chiamato alle armi e viene assegnato a Firenze, a un reggimento di Fanteria; segue il corso allievi ufficiali dell’Accademia militare di Modena ottenendo il grado di sottotenente. Durante l’estate manda alcune poesie alla Riviera Ligure. All’inizio di settembre si trova in zona di guerra e a novembre è in prima linea: viene ferito alle braccia sul monte Sei Busi, nella zona di San Michele del Carso e sarà decorato con la medaglia d’argento. È costretto a una lunga degenza presso l’ospedale militare di Ferrara prima e poi di Firenze. Passa al servizio sedentario presso Chieti; nel settembre del 1916 è a Roma.
Verso la fine dell’anno comincia a collaborare al Resto del Carlino, pubblicandovi i primi racconti, e si trasferisce a Bologna quando ne diventa redattore; la collaborazione durerà fino al 1921, ma stenderà alcuni pezzi anche nel 1923. A Roma, nel 1917, vengono intanto pubblicate le Poesie Grigioverdi. L’8 Aprile 1918 sposa la bolognese Laura Babini, conosciuta durante la guerra, allora impiegata come ragioniera, più tardi traduttrice dall’inglese. Un anno e mezzo dopo il matrimonio, si trasferisce a Milano con la famiglia - nel frattempo è nato il figlio Massimo -; è assunto al Corriere della sera diretto da Luigi Albertini. Nel 1920, pubblica La siepe e l’orto e scrive per La Lettura del 1 marzo 1920.
Dal 1921 soggiorna per qualche tempo a Parigi. Scopre Proust, di cui traduce qualche pagina, e scrive il suo primo romanzo: L’uomo nel labirinto, pubblicato nel 1926; cura anche un’antologia di novelle russe. Nell’estate del 1922 diventa redattore al Mondo di Giovanni Amendola e negli anni successivi frequenta casa Pirandello. Dopo il delitto Matteotti è tra i cinquanta firmatari dell’“Unione nazionale delle forze democratiche” guidata da Amendola.
A partire dall’estate del 1924, sulla rivista umoristica Il Becco Giallo, che non risparmia critiche al regime, tiene con lo pseudonimo V.E. Leno la rubrica Sfottò.
Da marzo a dicembre del 1925 è anche critico teatrale del Risorgimento di Roma, poi soppresso. L’anno successivo comincia a collaborare, all’inizio senza firmare, con La Stampa, introdottovi da Pancrazi. È sulla Stampa del 14 gennaio 1927 che Alvaro pubblica le pagine iniziali di Gente in Aspromonte. Riviste francesi e tedesche ospitano suoi scritti.
È oggetto di attacchi da parte dei giornalisti fascisti, ma declina l’invito fattogli da amici francesi ad andare a Parigi. Collabora per il giornale 900.
Alla fine del 1928, parte per Berlino in veste di inviato della Stampa per sfuggire “agli attacchi che gli facevano i giornali” e segue attentamente la vita culturale tedesca. Nel 1929 pubblica L’amata alla finestra.
Rientrato definitivamente a Roma dopo un breve soggiorno in Germania, continua a collaborare con La Stampa, scrive quattro articoli nel 1929 per Il Mattino e pubblica nel 1930, approfondendo i suoi originali temi letterari, le raccolte di racconti Gente in Aspromonte, La signora dell’isola, Misteri e avventure e il romanzo Vent’anni, per il quale vince nel marzo 1931 il premio letterario La Stampa di 50.000 lire. Per conto della Stampa intraprende, a partire dal 1930, una serie di viaggi in Russia, in Turchia, in Germania, in Grecia, in Francia, in Austria, in Danimarca, in Svezia, ma anche in Italia; “attraverso tali viaggi approfondirà le sue conoscenze sul mondo contemporaneo, imparando a guardare con occhio meno provinciale le vicende nazionali e sue personali, epperò ampliando notevolmente il suo orizzonte culturale e autenticandosi viepiù come intellettuale di statura europea” . Gran parte degli articoli riguardanti il suo viaggio attraverso l’Italia sono raccolti nei volumi: Itinerario italiano, 1933, Roma vestita di nuovo, 1957, Un treno nel sud, 1958; i reportage sulla Turchia si trovano invece in Viaggio in Turchia, 1932, e quelli sulla Russia in I maestri del diluvio. Viaggio nella Russia Sovietica, 1935; gran parte degli articoli di attualità apparsi sulla Stampa è accolta nel volume più importante della saggistica alvariana: Il nostro tempo e la speranza. Saggi di vita contemporanea, 1952.
Scrive per Il Messaggero negli anni 1933- 1934 e 1937-1938.
A partire dal 1935,trascorre lunghi periodi a Santa Liberata, in provincia di Grosseto. Nello stesso anno inizia a collaborare come sceneggiatore con il cinema e uno dei film, Casta diva , viene premiato alla mostra di Venezia. Nel 1937 scrive per la rivista Omnibus, diretta da Leo Longanesi, diversi articoli sull’Unione Sovietica dopo la rivoluzione dell’ottobre 1917. Nel 1938 viene pubblicato il suo romanzo L’uomo è forte, che due anni dopo riceverà il Premio dell’Accademia d’Italia. È autore di una commedia, Caffè dei naviganti, rappresentata a Roma nel 1939 dalla compagnia Cervi-Pagnani al Teatro Eliseo. Nel 1940 scrive Incontri d’amore.
Fino alla caduta del fascismo, Alvaro si mantiene lontano dagli ambienti del potere e riesce a continuare con una relativa tranquillità la sua opera narrativa e saggistica. È chiamato, ormai divenuto scrittore famoso e di successo, a lavorare al Popolo di Roma pur non essendo iscritto al Partito fascista e con diverse riviste culturali e periodici di critica teatrale e cinematografica come il Dramma.
Nel gennaio del 1941 torna per l’ultima volta a San Luca per i funerali del padre e si recherà più volte a Caraffa del Bianco, in provincia di Reggio Calabria, a far visita alla madre e al fratello don Massimo, parroco del paese.
Dal 25 luglio all’8 settembre del 1943 assume la direzione del Popolo di Roma. Con l’occupazione tedesca della città, colpito da mandato di cattura, si rifugia a Chieti, sotto il falso nome di Guido Giorni, e vive dando lezioni d’inglese. L’amico che ne ha favorito la fuga mantiene i contatti tra lui e la moglie, rimasta a Roma.
Nel giugno del 1944 ritorna a Roma. Viene a sapere che il figlio è stato fatto prigioniero in Jugoslavia e che, in seguito, si è unito ai partigiani nei dintorni di Bologna.
Nel dopoguerra fonda, insieme ad altri intellettuali, il “Sindacato nazionale degli scrittori”, di cui ne rimane segretario fino alla morte. Nel 1945 pubblica il saggio L’Italia rinunzia? e fa ristampare Gente in Aspromonte.
L’anno successivo esce L’età breve, primo romanzo del ciclo Memorie del mondo sommerso.
Vive e lavora a Roma, nell’appartamento di Piazza di Spagna, con terrazzo sulla scalinata di Trinità dei Monti, e a Vallerano, in provincia di Viterbo, ai piedi dei Monti Cimini, dove possiede una grande casa immersa nella campagna.
L’11 luglio del 1949 viene messa in scena a Milano, presso il Teatro Nuovo, la sua tragedia intitolata La lunga notte di Medea. Sempre in quell’anno Alvaro collabora alla sceneggiatura del film neorealista Riso amaro . Scrive poi il soggetto del film Patto col diavolo .
Quasi una vita. Giornale di uno scrittore, che raccoglie pagine di diario tra il 1927 e il 1947, è pubblicato nel 1950; questo libro gli consente di vincere il Premio Strega 1951, superando in finale scrittori come Mario Soldati, Carlo Levi, Alberto Moravia e Domenico Rea.
Nel 1952 Corrado Alvaro subentra ad Ennio Flaiano nella rubrica di critica cinematografica del Mondo, il settimanale, e contemporaneamente riprende la collaborazione con il Corriere della Sera. L’anno successivo ripubblica Vent’anni e L’amata alla finestra in edizioni rivedute ed ampliate.
È il 1954: Alvaro deve sottoporsi a un intervento chirurgico per un tumore addominale, inizialmente creduto benigno. Riprende a lavorare con lena e dà inizio, con Itinerario italiano, all’edizione delle Opere di Corrado Alvaro. Scrive inoltre nel 1954 per la rivista Confluence, prestigioso periodico dell’Università statunitense di Harvard, il saggio Rich Literature and Poor Life, dedicato ai problemi dell’Italia meridionale. Il 28 maggio dello stesso anno, a Roma, viene rappresentato il suo monologo dal titolo Bellezza per vivere, interpretato dall’attrice Paola Borboni della Compagnia del Teatro dei Commedianti.
Settantacinque racconti è del 1955; tra il 1955 e il 1956, Alvaro scrive degli elzeviri per il Corriere della Sera, con il quale collaborava stabilmente dal 1942, e riceve l’incarico dalla Mondadori di curare l’edizione critica di Novelle per un anno di Luigi Pirandello. Il 20 Aprile del 1956 esce il suo ultimo articolo, sul Corriere della Sera.
Aggravatasi la malattia, che colpisce ora i polmoni, muore a Roma nella sua abitazione il mattino dell’11 giugno 1956, lasciando alcuni romanzi incompiuti e vari altri inediti; una raccolta, La moglie e i quaranta racconti, esce postuma nel 1963. La cerimonia funebre, nella chiesa romana di Santa Maria delle Fratte, è officiata dal fratello don Massimo. Rispettando le sue ultime volontà, Corrado Alvaro è sepolto nel cimitero di Valleranno, in una modesta tomba di peperino.

2. IL GIORNALISMO

2.1. Le testate

Sono molto numerose le testate per cui Corrado Alvaro ha scritto; all’interno della tabella sottostante sono indicati il nome di ciascuna e gli anni di collaborazione. Altri titoli di quotidiani e periodici, non presenti nella tabella ma elencati da Mario Strati nella postfazione agli Scritti dispersi , vengono citati successivamente.

TESTATA
Stampa


Corriere della Sera

Mondo (quotidiano)
Mattino
Messaggero
Popolo di Roma
Resto del Carlino
Risorgimento
Tempo
Mondo (settimanale)
‘900
Dramma
Rivista d’Oggi
Lettura
Nuovo Birichino Calabrese
Riviera Ligure
Becco Giallo
Orizzonte Italico
Idea Nazionale
Corriere del teatro
Italia Vivente
Fiera Letteraria (o Italia Letteraria)
Italia che scrive
Nuova Antologia
Donna
Italia Letteraria
Ambrosiano
Petaso
Atlantica
Littoriale
Corriere Padano
Lavoro Fascista
Tribuna
Quadrivio
Educazione Fascista
Scenario
Grandi Firme
Mediterraneo
Cinema
Lettura
Omnibus
Pesci Rossi
Nuova Europa
Aretusa
Domenica
Film RivistaBianco e nero
Campo
Vie Nuove
Unità
Avanti
Teatro
Ponte
Almanacco Calabrese
Sipario
Arena
Confluence
Scena Illustrata
Corriere d’Informazione
Prospettive Meridionali
Colloqui

ANNI DI COLLABORAZIONE
1921,1926, 1927, 1928, 1929, 1930, 1931, 1932, 1933, 1934, 1935, 1936, 1937, 1938, 1939, 1940, 1941, 1942, 1948, 1949, 1950, 1951, 1952
1919, 1924, 1943, 1946, 1947, 1948, 1951, 1952, 1953, 1954, 1955, 1956
1922, 1923, 1924, 1925, 1926
1929
1933, 1934, 1937, 1938
1940, 1941, 1942, 1943
1916, 1917, 1918, 1919, 1921, 1923
1925, 1926
1921, 1946, 1948
1920, 1949, 1950, 1951, 1952
1926, 1928, 1929
1940
1914
1920, 1926
1914
1915
1924
1924
1924
1925
1926
1927, 1955, 1957, 1967
1927
1927, 1934, 1935, 1936, 1937
1928
1929, 1930, 1932, 1933, 1936
1929
1929, 1930, 1931, 1932
1929
1930
1931
1932
1932
1933
1933
1933, 1934, 1936, 1937
1935?, 1938
1936
1937, 1938
1937
1937, 1938
1939
1944
1945
1945
1946
1947
1946
1947
1947
1948, 1950
1949, 1950
1950
1951, 1952
1952, 1953, 1956, 1959
1953
1954
1954
1955
1955
1955

Mario Strati, nella postfazione agli Scritti dispersi, elenca altre testate - straniere oppure minori - su cui Corrado Alvaro scrive. Sono: Ardita, Berliner Tageblatt, Brigata, Cabala, Concilio, Corriere Veneto, Coscientia, Cronache d’Attualità, Due lire di novelle, Europe, Europaische Reevue, Grandi Firme, Mediterraneo, Mercurio, Messaggero della Domenica, Narrativa Meridionale, Noi e il Mondo, Nuova Europa, Occidente, Orizzonte Italico, Otto/Novecento, Poesia ed Arte, Primato, Rassegna Italiana, Revue Europèenne, Revue Hebdomadaire, Scena, Scena Illustrata, Schermo, Soggetto, Spettatore, Spettatore Italiano, Teatro, Terra Nostra, Tevere, Vie Nuove, Weltbuhne.

2.2. Scrittore e giornalista

Scrittore e giornalista: Corrado Alvaro è stato entrambe le cose. Basta un piccolo spunto, un evento per iniziare a scrivere; mentre lo scrittore, però, è più libero, ha il privilegio di seguire i propri percorsi mentali e di fissare anche e soprattutto emozioni, il giornalista deve concentrarsi su quanto realmente accade, su ciò che gli viene assegnato, e non può esprimere sensazioni. Si può dire che, mentre il giornalista “scrive in piedi”, lo scrittore è “seduto” tranquillo. Eppure, non è detto che scrittore e giornalista non possano vivere all’interno della stessa persona: alla base c’è la scrittura. Corrado Alvaro realizza soprattutto elzeviri e reportage - oltre che racconti e novelle, pubblicati a puntate e successivamente raccolti in volume -, che arricchiscono le pagine culturali di quotidiani e periodici. L’elzeviro è al confine tra letteratura e giornalismo. Il Professor Rando sostiene che gli articoli giornalistici di Alvaro abbiano influito sulle sue opere letterarie: “[…] gran parte della produzione novellistica di Alvaro ha un’incubazione giornalistica e molte novelle pubblicate sulla Stampa daranno linfa alle sue famose raccolte […]” ; pone a confronto passi di articoli e di romanzi in cui ci sono somiglianze evidenti: leggendo parallelamente alcune righe di un articolo apparso sul Mondo il 13 Agosto 1925, dal titolo “Figurine di Calabria”, e altre tratte dalla sua opera più famosa, Gente in Aspromonte, si osserva che il legame è strettissimo:
“Figurine di Calabria”: “ […] sono queste le sere che si passano accanto al fuoco. Il pastore è sulla montagna, nelle tane accanto agli animali. Tutti i monti intorno sono sparsi di fuochi che tengono lontano il lupo. La massaia è seduta sullo scanno e al chiarore della fiamma fila la lana, scrutando il filo che cola insalivato fra le sue dita. La conocchia, alta nell’ombra, sembra una testa che si muova infaticabile, con tutti i pensieri e le speranze che il pastore vi incise col suo coltelluzzo, quando la fece da un pezzo d’albero, nella primavera della montagna”.
“Gente in Aspromonte”: “I pastori cavano fuori i coltelluzzi e lavorano il legno, incidono di cuori fioriti le stecche da busto delle loro promesse spose, cavano dal legno d’ulivo la figurina da mettere sulla conocchia, e con lo spiedo arroventato fanno buchi al piffero di canna. Stanno accucciati alle soglie delle tane, davanti al bagliore della terra […]” .
Walter Pedullà parla della doppia vocazione dello scrittore-giornalista: “Alvaro ovviamente conosce bene la differenza che passa tra scrivere un articolo o una pagina di romanzo su un tema, straniero o italiano che fosse. Usava due generi letterari sapendo che uno dice una cosa e uno un’altra. Aveva due scritture, non due facce”.


Ci si concentrerà ora sulle collaborazioni giornalistiche di Alvaro al Mondo, alla Stampa e al Corriere della Sera: è per queste testate che il sanluchese realizza il maggior numero di articoli. I pezzi presi in analisi successivamente saranno tratti da tali quotidiani.


2.3. La collaborazione al Mondo

Quando Corrado Alvaro esordisce sul Mondo di Amendola, il 27 gennaio 1922, con il primo articolo della rubrica “Lettere parigine, Memorie di viaggiatori illustri e oscuri”, aveva già alle spalle, dopo il saggio di Polsi e l’esordio giornalistico del 1914 sul numero di dicembre della Rivista d’oggi, una saltuaria collaborazione, tra il 1916 al 1921, al Resto del Carlino, una momentanea apparizione sulla Lettura del 1 marzo 1920, due interventi sul Mondo (settimanale) e la pubblicazione di suoi quattro articoli sulla Stampa di Torino nel 1921; in più, si erano già potute apprezzare le sue qualità leggendo Poesie grigioverdi, 1917 una raccolta di novelle, La siepe e l’orto, 1920, e il suo primo romanzo L’uomo nel labirinto: a conferma della simultaneità del suo impegno di giornalista e scrittore. Tra il 1919 e il 1920 lavora anche al Corriere della Sera, ma non si sente pienamente realizzato: in Luigi Albertini, del 1925, scrive: “Ricorderò sempre, dei due anni che io passai là dentro, una sera in cui mi fu data da rivedere la corrispondenza politica romana, già dettata da Roma e ripetuta da Milano al dettatore per il controllo. Un redattore, consegnandomi le cartelle, mi fece un discorsetto per ricordarmi l’importanza dell’incarico, la delicatezza del lavoro, la responsabilità dell’impegno e nello stesso tempo l’atto di fiducia che si provava a farmi.
Guardatemi bene in faccia. Io non ho tremato di fronte al nemico, quella sera ebbi i più vili dubbi ortografici sulla punta della mia penna e la più tetra disperazione nell’animo” .
Il Mondo politico quotidiano nasce a Roma a gennaio del 1922 e persegue una decisa opera di rinnovamento della tradizione liberale in senso democratico e antifascista; è la sua lotta coraggiosa in difesa della libertà e della democrazia a causarne, dopo quattro anni di vita, la soppressione nell’ottobre del 1926. Il suo fondatore Giovanni Amendola, cogerente con Cianca, intellettuale meridionale, filosofo, uomo politico democratico-liberale, giornalista della Voce e del Corriere della Sera, si spegne pochi mesi prima, ad aprile, vittima dei postumi di un’aggressione subita.
Il giornale resiste, nel 1923, ai tentativi di soppressione messi in atto dal regime fascista contro i fogli “pleonastici”, raggiungendo il massimo di successo e di tirature (95.000 copie a giugno, 110.000 a settembre) nel 1924, quando rimane quasi da solo a lottare contro l’illegalità politica diffusa, contro il collaborazionismo di molti “moderati” e contro le violenze ricorrenti e impunite dei fascisti: in occasione del delitto Matteotti, 10 giugno 1924, e del ritrovamento del cadavere del deputato socialista, 15 agosto 1924, il Mondo, già aspramente polemico contro le intimidazioni fasciste in occasione delle elezioni di aprile, accusa con fermezza il governo. Quando il fascismo diventa regime, a gennaio del 1925, le libertà costituzionali vengono eliminate e si instaura la dittatura.
Nel 1926 il giornale viene soppresso, ma Alvaro non vi scrive già più. Durante gli anni della sua collaborazione al Mondo matura due componenti fondamentali della sua personalità di uomo, di scrittore e di giornalista: il primato della coscienza morale, da un lato, e l’esperienza critica della modernità, dall’altro. Scrive, nelle Più belle pagine di T. Campanella: “Campanella appartiene al ceppo popolare degli apostoli in cui quel che più conta è l’etica, l’essenza dell’uomo, e non v’è potere possibile dove non è grande idea e dove non è giustizia” ; Alvaro respira al Mondo il senso del diritto, della correttezza, della lotta in difesa del buono e del giusto, e riconosce in Amendola un maestro di laica moralità, oltre che di giornalismo e di impegno politico democratico: “Giovanni Amendola, dice nell’Ultimo diario, credeva nella forza morale, nella dignità della coscienza, nella lotta democratica aperta” .
Al Mondo Alvaro collabora, durante il primo anno, come corrispondente da Parigi: è da questo luogo che impara ad osservare la modernità con occhio critico. Nei tre anni successivi lavora all’interno della sede di Roma. Scrive in totale centocinquantadue articoli: si tratta di pezzi di critica letteraria, teatrale e d’arte, ma anche di attualità e di politica.

2.4. La collaborazione alla Stampa

Dal 4 aprile del 1926 Alvaro ristabilisce i contatti con La Stampa dopo la fulminea apparizione del 1921; vi collaborerà stabilmente fino al 19 novembre del 1952, con una sola, lunga, interruzione di cinque anni: dal 1943 al 1947. Gente di passaggio è il primo di una lunga serie di articoli, cinquecentosessantanove, scritti da Corrado Alvaro e pubblicati sul giornale torinese durante il regime fascista e negli anni della ricostruzione postbellica. Scrive il Professor Rando: “Certo, la collaborazione di Alvaro alla Stampa di Torino costituisce uno dei capitoli più nutriti della cultura italiana tra le due guerre: si tratta di articoli che assumono, di volta in volta, lo spessore dei saggi, delle novelle, dei racconti, dei fogli di viaggio, delle pagine di diario, senza venir meno ai criteri di leggibilità giornalistica, ma senza mai scadere nella sciatteria di certo giornalismo volgare […]” .
Osservando da vicino l’intera produzione del sanluchese pubblicata sulla Stampa, il Professore esprime un’altra considerazione: “Un dato fondamentale risalta tra gli altri nella ricchissima produzione saggistica di Alvaro alla Stampa: il costante atteggiamento paterno (non paternalistico), o da fratello maggiore, che lo scrittore assume nei confronti del pubblico dei lettori e dei giovani in particolare: mostrare il mondo anche nei suoi aspetti meno gratificanti; non barare mai con informazioni men che attendibili […]. Si direbbe ch’egli esorti i ‘figli’ (o i ‘fratelli’) a misurarsi con la realtà, evitando tutte le vie di fuga e tutte le alienazioni in agguato, ma non già per appiattirsi sul reale, bensì per migliorarsi migliorandolo, cioè per non smarrire la fiducia nelle capacità positive, costruttive di cui l’uomo ha dato prova, nella sua travagliata storia, di essere in possesso” .
Alvaro è costretto, nel 1927, a trasferirsi a Berlino come inviato della Stampa per sfuggire alla persecuzione fascista: in Germania scrive per diverse testate, come il Berliner Taglebatt e la rivista Grossmann. Nel 1929 un suo reportage di sette articoli sulla vita e sui costumi tedeschi è pubblicato sulla Fiera Letteraria. Sempre per conto della Stampa intraprende, a partire dal 1930, una serie di viaggi: è a Parigi nel 1931, in Turchia nello stesso anno e in Russia nel 1934; visita anche la Grecia, l’ Austria, ma anche l’Italia è spesso oggetto delle sue osservazioni; nel 1952 andrà in Danimarca, in Svezia e in Norvegia: “primo, grande ‘inviato’ del giornalismo italiano” . In uno dei reportage su Berlino, nel 1929, scrive: “Ballavano come se marciassero”, un vero e proprio presentimento; dell’Unione Sovietica avverte il clima morale e i cataclismi repressi; intuisce l’irresistibile potenziale e la prossima egemonia culturale degli Stati Uniti; la Turchia è la nazione che più gli ricorda la Calabria, per la povertà materiale dell’economia e per la ricchezza di memorie e di uomini laboriosi; interessanti sono poi le note sui costumi dei popoli nordici. È Walter Pedullà a scrivere: “Oltre che nello spazio, Alvaro viaggia nel tempo, dall’attualità più fresca alla storia, che lui ricostruendola sa far tornare scottante. Da una nazione all’altra, da una regione italiana all’altra […], da una città meridionale a una settentrionale alla ricerca dell’originalità di un paese, regione, nazione. Da un’arte all’altra […]: in ognuna cercando il connotato specifico. Da una disciplina umanistica a quella scientifica. Dalla filosofia alla pietra da costruzione, ovunque ci fosse la vita da osservare e da interpretare. Da molti punti di vista, che Alvaro sapeva mescolare. Una pozione che sazia. Vasi comunicanti che tengono dappertutto alto il livello” .
Alvaro scrive per molti anni sulla Stampa, anni in cui il panorama italiano ed europeo cambia; ed egli segue i mutamenti, che si rispecchiano nei suoi articoli: negli scritti del periodo fascista c’è un’attenzione doverosa agli aspetti negativi della società italiana accompagnata dall’apprezzamento del nuovo che a poco a poco emerge; negli articoli del dopoguerra, invece, lo scrittore denuncia da un lato, da intellettuale “impegnato”, le ingiustizie patite dai lavoratori, dai poveri e dalle popolazioni meridionali e individua, dall’altro, da padre saggio o da fratello maggiore, nella solitudine, nelle “arti meccaniche”, nella sessualità sfrenata-banalizzata e nell’incomunicabilità i mali del nuovo secolo. Sono inoltre presenti altri tipici temi alvariani, ad esempio le indagini sulla sessualità moderna.
Un ambito considerevole della collaborazione di Alvaro alla Stampa è costituito da scritti di cronaca e critica letteraria (Carducci, D’Annunzio, Tolstoj, Pirandello, Campanella sono solo alcuni scrittori e uomini di cultura di cui si occupa nei suoi articoli) oltre che dalla pubblicazione di diversi racconti, come ad esempio L’amata alla finestra, Gente in Aspromonte (sono parole sue: “Tornai da Berlino con Gente in Aspromonte in tasca”), L’uomo nel labirinto, Vent’anni, L’uomo è forte.

2.5. La collaborazione al Corriere della Sera

Dopo aver collaborato con il Corriere della Sera tra il 1919 e il 1920, Alvaro torna a lavorarvi il 13 aprile del 1942, stabilendo con il quotidiano milanese, la più prestigiosa testata italiana, rapporti continuativi a partire dal 2 gennaio 1943. Tra il 1942 e il 1956 lo scrittore calabrese pubblica centoventinove articoli (complessivamente, considerando anche quelli stesi tra il 1919 e il 1920, i pezzi sono 135) che costituiscono il completamento ideale, quasi ad incastro, di quelli pubblicati sulla Stampa: gli anni 1943 e 1947, “vuoti” sul giornale torinese, vengono “riempiti” dagli articoli del Corriere, alla stessa stregua degli anni 1953-56; laddove “scoperti” del tutto appaiono, sul “Corriere”, gli anni ’49-’50 e “poveri” gli anni ’48 (6 articoli), ’51 (un solo articolo), ’52 (2 articoli), ricchi di interventi sulla Stampa: assente Alvaro da ambedue i giornali nel biennio 1944-1945, in seguito ai rivolgimenti verificatisi nel paese dopo il 15 luglio.
Il sanluchese consegna al giornale 17 articoli nel 1943, anno cruciale se si pensa al clima che si respirava in Italia per via della guerra, che volgeva al peggio per i paesi dell’Asse; egli non lascia trapelare nulla riguardo a ciò che accade, fermo in un tacito compromesso col regime.
Dal 1946 interviene sui problemi dell’immediato dopoguerra, pubblicandovi articoli-racconti e articoli-saggi direttamente influenzati dall’atmosfera febbrile di quel difficile periodo di trapasso dalla dittatura alla democrazia. In un articolo pubblicato sul Corriere l’11 marzo del 1948, dal titolo “Il discorso interrotto”, Alvaro riflette sulla guerra passata: “La guerra muta il valore di tali monumenti. Li esalta o li umilia come fa coi vincenti e i perdenti. Un esercito nemico che entra in una città sconfitta fa oscillare non solo i valori intimi d’una civiltà, ma i suoi simboli civili per quanto grandi, vela a lutto la sua stessa storia. Questo mi capitò di sentirlo a Roma. Che cosa poteva essere, per le truppe d’occupazione, il Campidoglio? […] Quello stesso latino che, guardato da un ozioso soldato di colore, pareva ai miei stessi occhi sillabato come un’iscrizione degli Incas”.
41 dei pezzi complessivi - 135 - possono essere considerati racconti, mentre gli altri 94 appartengono alla categoria dei saggi. Numerosi racconti del Corriere - come ricorda il Professor Rando - sono incentrati su figure femminili, reali ma anche perfetti simboli della realtà; hanno una dote fondamentale le donne: “sono le più vicine alla natura”.
In altri racconti affronta il problema dell’emigrazione e il tema dell’incomprensione fra padri e figli. Non mancano storie imperniate sul tema dell’infanzia e dell’adolescenza inquieta; ed emerge anche la vena ironica di Alvaro che scrive per il puro piacere di raccontare. Diverse sono le sfaccettature della personalità alvariana che emergono leggendo i suoi racconti pubblicati sulla testata milanese; la sua attenta sensibilità lo porta a scrutare quanto gli accade intorno; scrive Walter Pedullà: “Il narratore di San Luca alla politica preferisce la vita, da trasmettere in presa diretta, dovunque essa si annidi. Alvaro non è mai un osservatore superficiale, tanto meno se si fissa su un particolare esterno. Gliel’aveva ricordato il cinema che nel novecento si fa arte col particolare e col dettaglio. Da una foglia o da un seme Alvaro sapeva arrivare alle radici” . La parola “cinema” fa pensare alla sua ricorrente polemica contro le “arti meccaniche” (oltre al cinema, fra queste rientrano anche la fotografia, la radio e la televisione), che sarebbero responsabili della falsa percezione del mondo da parte dell’uomo moderno, non più in grado di distinguere tra finzione e realtà.
Negli articoli-saggi emerge l’Alvaro moralista, che fa la parte del “padre saggio”. Moltissimi sono i pezzi dedicati alla Calabria, la terra natìa a cui il sanluchese non può non sentirsi legato, ma che è anche in grado di analizzare con occhio critico, affrontando nei suoi scritti problemi come l’emigrazione, la povertà e il brigantaggio. Più volte torna anche Napoli, la città del Meridione che sente più vicina alla Calabria. Racconta: “Un maestro sospendeva dalle lezioni alcuni suoi scolari perché avevano i piedi sporchi. Come faceva il maestro a sapere che gli allievi non avevano i piedi puliti? Ebbene, essi non avevano le scarpe. Il maestro ignorava che su quei piedi nudi si scontravano due tendenze della politica verso il Sud. I conservatori, come dire?, i più illuminati di loro, si limitavano a pretendere che fossero lavati i piedi di così miseri bambini: fatto coi piedi puliti, il loro sarebbe stato un passo avanti verso la civiltà. I progressisti invece si battevano perché i ragazzi scalzi avessero le scarpe”, quelli come Alvaro non hanno dubbi: il problema della scuola non si risolve lavando i piedi, anche se è sicuramente meglio. Bisogna guardare oltre, al di sopra del piede” .


3. L’ANALISI

3.1. I criteri

Piero Bianucci, nel libro La verità confezionata , scrive che l’elzeviro moderno si pone come momento di riflessione su temi concreti e attuali; non solo accetta di essere inserito nel giornale come qualcosa di “giornalistico” e non di letterario, ma proprio di questa sua posizione si avvale per diventare, agli occhi del lettore, un’ulteriore valutazione delle notizie che si trovano nelle altre pagine. L’autore parla di
autocoscienza dell’informazione.
Gli elzeviri di Corrado Alvaro appartengono invece alla categoria che Bianucci definisce di tipo classico, scritti cioè adottando uno stile letterario; nel passato i giornali affidavano agli scrittori il compito di redigerli e ogni testata puntava ad accaparrarsi i migliori letterati. Prendendo come modello un elzeviro di Alberto Moravia apparso sul Corriere della sera il 28 marzo 1974, di tipologia classica, Bianucci sostiene che l’articolo finisce col “rappresentare l’evasione: è la letteratura che si oppone alla vita, incarnata dal resto del giornale con la cronaca nera, la politica, le notizie dal mondo dello spettacolo ecc. Non è la realtà che si trasforma in cultura grazie a una particolare angolazione critica di chi scrive, ma è la cultura [in questo caso quella letteraria] che in quanto tale si inserisce in un contesto giornalistico rimanendo però, rispetto ad esso, sostanzialmente estranea”.
Leggendo gli elzeviri di Alvaro, e degli scrittori in generale, si ha proprio la sensazione che ci sia un angolo del giornale riservato a indagare il mondo sotto una luce particolare, che non illumina solo la superficie dei fatti ma va oltre, penetra nel profondo degli avvenimenti, anche quelli che non rispondono ai tradizionali criteri di notiziabilità, che diventano solo lo spunto iniziale per dare vita alla riflessione.
Corrado Alvaro è autore di molti articoli giornalistici e, prima di intraprendere qualunque tipo di analisi, è necessario stabilire quali scritti esaminare in base a dei criteri. Verranno prese in considerazione, tra le testate quotidiane che ospitano i suoi pezzi, quelle per cui il sanluchese ha realizzato la maggior parte della sua produzione: Il Mondo, il Corriere della Sera e La Stampa. Come procedere poi?
Italo Calvino ha elaborato una teoria della scrittura in cinque punti, cinque piccoli saggi raccolti nel testo Lezioni americane (era stato invitato all’Università di Harvard per tenere un ciclo di conferenze sulla comunicazione poetica - letteraria, musicale, figurativa -; preparò e scrisse cinque delle sei lezioni richieste dal contratto, l’ultima l’avrebbe stesa in America ma la morte glielo impedì). Ogni lezione ruota attorno a un’idea, un concetto, un valore racchiuso in un termine: leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità, molteplicità.
Leggendo gli articoli di Alvaro ci si rende conto del fatto che ci siano dei temi ricorrenti, degli oggetti di indagine, dei modi di pensare e di scrivere che ritornano spesso nel corso del tempo e nei diversi quotidiani; ciascuno di questi può essere associato ad una delle cinque categorie individuate da Calvino. Non solo: alla luce delle cinque parole chiave si può comprendere il linguaggio e lo stile dello scrittore calabrese.

3.2. La leggerezza

Il primo saggio delle Lezioni americane è dedicato alla leggerezza. Calvino utilizza diverse immagini per rappresentare la sua idea di leggerezza, evocando anche personaggi mitologici; racconta la descrizione ovidiana di una donna che si trasforma in albero: i piedi le rimangono inchiodati per terra, una corteccia tenera sale a poco a poco e le serra le inguini; tenta di strapparsi i capelli e si ritrova la mano piena di foglie. Parla anche delle dita di Aracne, agilissime nell’agglomerare e sfilacciare la lana, nel far girare il fuso, nel muovere l’ago da ricamo, e che a un tratto si allungano in esili zampe di ragno e iniziano a tessere ragnatele. Queste figure rappresentano la leggerezza, sembra di vedere le due donne che passano da una forma all’altra mutando armonicamente le proprie sembianze.
Le donne sono spesso oggetto di indagine di Alvaro: è molto attento alla loro condizione. La leggerezza in Alvaro è incarnata dalla figura della donna. Scrive nel Nostro tempo e la speranza che “la prima fatica che vediamo nella vita è quella della donna, è una fatica interminabile che non lascia traccia, che ricomincia sempre daccapo” : la lucentezza dei mobili, il lindore delle tendine alle finestre sono destinati a sparire presto e necessitano di continuo lavoro per rinascere; niente a che vedere con le costruzioni dell’uomo, che sembrano sfidare il tempo. La pesantezza e la stasi del lavoro dell’uomo si contrappongono alla deperibilità dell’opera della donna. La cosa sorprendente è che la donna riesce a mantenere la sua leggerezza anche quando è schiacciata dal peso della fatica: Alvaro descrive le donne meridionali che portano sulla testa un carico di cinquanta o cento chili, un sacco di farina, una balla di carbone, un fascio di legna, col viso grondante di sudore che le mani occupate a equilibrare il carico non possono asciugare, e commenta, sempre nel testo già citato sopra: “Ho veduto uomini sotto gli stessi pesi come sotto una dannazione; non ho mai veduto in una donna sotto l’inumano fardello un’espressione diversa dalla fedeltà alla fatica […]. La donna, quella che porta fino a un quintale di peso sulla testa, ha ancora la mano lieve a tessere, cucire, custodire un bambino. La sua è una fatica bestiale, non un lavoro”.
La donna è leggerezza. Saranno analizzati adesso due articoli di Corrado Alvaro, scritti per La Stampa e per il Corriere della Sera, che hanno come protagonista la condizione femminile: nel primo testo si parla, non senza ironia, della “nuova” donna romana nata dal “miscuglio” di diverse tipologie di bellezza italiana, frutto delle migrazioni; e, nel secondo, l’analogia tra le moderne pastorelle del presepe e le “pin-up girls”, offre lo spunto per riflettere sulla società urbana.

Le donne di Roma, La Stampa, 14 Aprile 1926
Per riflettere sulle donne della capitale, Alvaro parte da un argomento di attualità: il tentativo di creare a Roma uno spirito boulevardiero; la volontà di dare prestigio ad alcuni luoghi in modo che, percorrendoli, si abbia l’impressione di attraversare i boulevards parigini. Subito ogni prospettiva è però troncata dall’autore: “Questa storia dei boulevards dove bisogna mostrarsi la domenica mattina, dopo la chiesa, non è roba per Roma […]. La vecchia Italia distrugge tutti gl’incantesimi con un senso di casa e di arcadia. Le ninfe diventano ragazze da marito”. Alvaro, già nel paragrafo iniziale, lancia un messaggio: il distacco tra l’Italia e l’Europa non può essere colmato attuando dei cambiamenti superficiali, perché i modi di vivere sono profondamente diversi nelle due realtà; via Veneto potrà anche essere arteria di grandi alberghi, caffè, bar, giornali e vetture pubbliche; calpestando la strada a occhi chiusi si potrebbe anche respirare un’atmosfera parigina, ma una volta schiuse le palpebre la prima cosa ad apparire sui marciapiedi sarebbero alcune mezze dozzine di figli, niente a che vedere con gli incontri mondani. Per accattivare il lettore, il sanluchese utilizza l’ironia, che dal primo paragrafo pervade poi tutto il resto dell’articolo.
L’attenzione si sposta poi tutta sulle donne: “Questa è la stagione delle belle donne”. L’autore descrive l’apparire della figura femminile come se questo mostrarsi obbedisse a delle regole precise, naturali, che non vengono seguite di proposito. Come se ci fosse un procedimento matematico a cui tutte le donne misteriosamente sottostanno senza saperlo; Alvaro veste i panni dello scienziato che descrive il fenomeno tentando di trovare delle spiegazioni a partire dai dati a sua disposizione: “Non si capisce a che regola ubbidiscano. Non esiste una federazione delle belle donne che abbiano il giorno d’uscita come quello delle visite. Fra di loro non si conoscono e vanno difficilmente a due a due. Poi, secondo i giorni, secondo le ore, appare la bionda e si vede la bruna, la magra e la piena, l’alta e la mezzana. La stagione e l’ora del tempo non influiscono per nulla su tali passaggi”.
Il terzo paragrafo è estremamente moderno dal punto di vista del contenuto: oggi le aziende locali e le multinazionali tentano di raggiungere direttamente segmenti di mercato sempre più specifici, adattando i propri prodotti alle esigenze delle diverse categorie di utenti ed anche al singolo cliente; questo è possibile grazie alle nuove tecnologie, che consentono di raccogliere in tempo reale informazioni sul circuito della produzione e della distribuzione e sui profili dei consumatori che acquistano i prodotti. Alvaro mostra come il tentativo di personalizzazione degli articoli da vendere avvenisse già nelle strade di Roma del 1926, quando i negozianti modificavano in fretta gli oggetti esposti nelle vetrine a seconda delle donne che sfilavano sul marciapiede: “Inoltre, risulta a qualcuno che, secondo il passaggio dei diversi colori di donne, mutano gli oggetti nelle vetrine dei negozi di lusso. La sera del 2 aprile, quando passarono le tre bionde, erano esposte in un negozio di via dei Condotti certe porcellane inglesi smaltate di turchino, con disegni d’oro. Poche ore dopo, nello stesso negozio, era esposta una serie di vasi arancioni con sbavature di madreperla. In quel momento una donna bruna metteva il piedino sul marciapiede”.
Come ogni esperimento che si rispetti, alla fine bisogna dimostrare la tesi e, a sostegno delle idee esposte, Alvaro racconta di una donna incantata davanti a un negozio; inizia così il paragrafo successivo: “Ricorderò sempre con soddisfazione, come prova delle mie osservazioni, una donna […]”.
Abbandonata l’indagine ironicamente scientifica, Alvaro si sposta su una dimensione più poetica e parla dell’apparizione delle donne nei principali punti di ritrovo: via Sistina, via dei Condotti e piazza di Spagna. Più che un fenomeno regolato da un processo sconosciuto, adesso la camminata delle donne sembra una magia, pare che ci si trovi di fronte a delle misteriose creature che iniziano a vivere all’inizio della strada e che scompaiono nel nulla una volta averla percorsa. Come siano state create per essere viste ed ammirate solo sotto quella luce, “e fuori di là sono come maschere al ritorno dalla festa, fuori luogo: Di là non so dove finiscano, che facciano. Scompaiono. Sapete quando ci si sveglia presto, in campagna, per vedere come nasce il sole?” Al loro passaggio tutto intorno cambia: diventa più mite, si lascia guidare dalla leggerezza; le automobili e i tramvai rappresentano le belve feroci che Orfeo, con la dolcezza del suo canto, era capace di ammansire. È qui il trionfo della leggerezza: “Appaiono: tutto è desto e attento, le automobili e i tramvai si moderano e divengono docili come gli elefanti al cospetto della domatrice, come i cavalli dei circhi alla frustata della cavallerizza, come le belve del Paradiso Terrestre quando saltò Eva raggiante sull’erba”.
Dal sesto paragrafo in poi torna l’ironia: Alvaro parla delle donne romane come il frutto di un mescolamento di diversi tipi di esemplari femminili. Inizia un simpatico excursus storico, nel corso del quale l’autore spiega come ci siano voluti almeno cinquant’anni per raggiungere il prototipo di bellezza incarnata dalle donne di cui si è finora discusso. È un modo per introdurre un altro concetto: la migrazione di quattrocentomila persone fra settentrionali e meridionali, stabilitesi nella capitale dal 1870 in poi. È stata la migrazione a sconvolgere i canoni della tradizionale “donna romana”, a far tramontare le bellezze antiche, “come quelle che hanno il loro busto nel Museo Capitolino e Vaticano. Fino a quindici anni prima il tipo nuovo era appena abbozzato […], l’impasto non era ancora ben riuscito, e sul volto di quelle ragazze lottavano le regioni e le nazioni. Venne fuori il tipo della maschietta romana […]”. Si potrebbe dire che non si era ancora giunti all’armonia piena, il processo era in divenire, tutte le fasi non erano state completate. Al brutto anatroccolo occorreva ancora un po’ di tempo prima di diventare cigno, alla pietanza mancavano degli ingredienti prima che potesse essere definita gustosa e delicata. Ma, alla fine, tutti i diversi tratti si armonizzano sullo stesso viso e nasce finalmente la nuova ragazza romana, sintesi di ogni altra tipologia: “Sul suo viso i tratti si sono conciliati, le belle fronti rotonde dell’Emilia rispondono allo zigomo forte, perlaceo di Lombardia, lo scolpito labbro volontario piemontese risponde all’occhio molle del sud”. Il risultato è l’armonia che sconfigge il caos iniziale, la leggerezza della sintesi che trionfa sulla pesantezza di tanti elementi disparati mischiati insieme.

A livello sintattico, i periodi sono brevi (leggerezza vuol dire sottrazione di peso, anche alla struttura del testo e al linguaggio), costituiti da poche proposizioni e a volte da una soltanto (ad esempio: “Sì, questa è la stagione delle belle donne”; “Ma trovata una brutta è inutile aspettare. Verrà sempre di peggio. Non si capisce a che regola ubbidiscano”; “Si adunano queste donne su due o tre strade”; “Ogni quartiere ne spreme qualcuna”; “Ma non vuol dire”). Walter Pedullà scrive: “Come i racconti sono folgoranti più dei romanzi, così gli articoli sono ‘essenziali’: il poco che basta per dire tutto quello che conta […]” .
Il lessico è chiaro e non ambiguo; sono presenti due parole straniere scritte in corsivo: bars e boulevards, e una frase in dialetto romanesco: “Mori ammazzato”; sempre in dialetto romanesco sono indicati i nomi di alcune donne: “la sora Esterina”, “la sora Nanna”. Accanto al lessico gergale si trovano anche dei termini aulici e dei rimandi classici come “arcadia”, “ad accento circonflesso”, “Sabina”, “moglie di Adriano”.
Le figure retoriche più ricorrenti sono quelle del paragone e della metafora: “come i francobolli nella loro casella”; “come l’attore sotto il riflettore”; “Sapete quando ci si sveglia presto, in campagna, per vedere come nasce il sole?”; “come una regina in incognito”; “fuori di là sono come maschere al ritorno dalla festa”; “docili come gli elefanti al cospetto della domatrice, come i cavalli dei circhi alla frustata della cavallerizza, come le belve del Paradiso Terrestre quando saltò Eva raggiante sull’erba”; “come quelle che hanno il loro busto nel Museo Capitolino e Vaticano”; “come una nave in un porto angusto”.
Lo stile adottato è personale, con osservazioni soggettive, brillanti, con commenti e giudizi, con espressioni spiritose: “Questa storia dei boulevards dove bisogna mostrarsi la domenica mattina, dopo la chiesa, non è roba per Roma”; “Chi si ricorda appena quindici anni fa le donne di Roma, si ricorderà che il tipo della romana è mutato”; “ella si avvelena ancora per amore, per un resto della vecchia razza degli amori segreti”.

Perfino le pastorelle del presepio oggi imitano le “pin-up girls”, Corriere della Sera, 25 dicembre 1953
È l’elzeviro del giorno di Natale del 1953. Anche in questo caso Corrado Alvaro parte da un avvenimento, che risale all’anno passato: la donazione di un presepe all’italiana per la chiesa della comunità cattolica alla città di Upsala, in Svezia. Sono passati ventisette anni dalla stesura dell’articolo analizzato in precedenza, ma il primo messaggio che l’autore lancia è lo stesso: il distacco tra l’Italia e il resto dell’Europa; la divergenza è rappresentata simbolicamente dal fatto che, per poter montare il presepe italiano, in Svezia hanno bisogno che gli siano inviate le istruzioni, non conoscono il modo di “mettere insieme un così esotico popolo di figure”, non sanno “quello che significavano, e che cosa fosse quello che portavano, e perché lo portavano”. La differenza è che, mentre nello scritto precedente era in Italia la volontà di respirare un’altra atmosfera, ora è nel Paese straniero che giunge la tradizione italiana; una volta seguite le indicazioni, il presepe di Upsala diventa mèta di viaggi di curiosi delle città vicine. Così in Svezia non sono inviate solo statuette, ma anche l’aria del nostro Paese: “È un villaggio italiano fuori del tempo” e dello spazio naturale.
Emerge poi, nei paragrafi successivi, un altro ricorrente tema alvariano: la polemica contro la nuova società, quella delle macchine, che spazza via la tradizione e anche i valori di un tempo. Agli antichi pastorelli, aggraziati, ideali, in uno stato di sognante riposo, a cui, se si dovesse prestare un linguaggio, si darebbe quello di Virgilio e di Poliziano, si sono sovrapposti fino a farli scomparire del tutto, i “pupazzi” moderni. “Dietro ad essi è la poesia delle selve, dei ruscelli nei luoghi romiti, il sonno e il risveglio di Erminia tra i pastori”: è un’immagine di incantevole leggerezza. Alvaro descrive i personaggi popolari antichi, soffermandosi sugli anziani ma soprattutto sulle donne: “Mettendo insieme un gruppo di donne avevano l’aria di discorrere piacevolmente e con garbo […]. Sono le pastorelle giovani che portano la fiasca del latte, le ricottine, le uova; e sono le povere vecchie che trascinano il fascio di legna”.
L’autore si chiede come sia potuto accadere che, nei piccoli villaggi dove gli artigiani producono i personaggi, si sia diffusa rapidamente una nuova estetica, quella che ha portato a far “comparire, un certo anno, pupazzi espressionisti”, ma in cuor suo conosce già la risposta: l’informazione arriva ovunque; l’artigiano potrebbe aver solo osservato una pagina illustrata e, anche se non avesse mai visto un esemplare dell’arte del tempo, sarebbero bastati “i manifesti sui muri, la pubblicità dei giornali, il cinema, la stessa estetica della fotografia”. A sostegno di questa sua ipotesi, Alvaro porta come esempio il cambiamento, dovuto al gusto moderno, del concetto di bellezza femminile: tipi di fisionomie diversi da quelli del passato sono stati ammessi nella categoria della bellezza; e il mutamento si rispecchia nelle stesse statuine natalizie: “Non vorrei avere l’arte di esagerare, ma venne anche nei pupazzi del presepe l’ondata del realismo”. I nuovi personaggi sono di plastica, più leggeri di quelli antichi fatti di creta. Allora dov’è la leggerezza delle statuine che rappresentano la tradizione, se sono più pesanti di quelle moderne? Italo Calvino mette in guardia dal tipo di leggerezza dei nuovi pupazzi: esistono due tipi di leggerezza, una è della pensosità e, l’altra, è della frivolezza . Le figurine moderne sono leggere perché sono come svuotate: “Si industrializzavano, e diventavano simboli senza verosimiglianza, senza pena e senza gioia, con la lustra età delle vernici nuove”; e, le statuette tradizionali racchiudono i valori del passato: possiedono la leggerezza della pensosità. Le nuove pastorelle sembrano uscite “dalle pagine dei giornali illustrati, dai film del realismo erotico-sociale, dalle fotografie balneari delle pin-up girls. Pastorelle di cui il vento muove alquanto la veste, e ne scopre le gambe delineandole fino alle coscine”. Le pastorelle tradizionali incarnano invece la leggerezza autentica della donna, che ha in sé il peso della fatica e del lavoro; è questa pastorella, è questa donna che è capace di sollevarsi “sulla pesantezza del mondo - sono le parole di Calvino -, dimostrando che la sua gravità contiene il segreto della leggerezza, mentre quella che molti credono essere la vitalità dei tempi, rumorosa, aggressiva (nel nuovo presepe c’è perfino lo zampognaro “con un’aria di violenza”), scalpitante e rombante, appartiene al regno della morte, come un cimitero d’automobili arrugginite”.
È rimasto solo un figurinaio calabrese a realizzare veri pupazzi di creta, ma sono pochi quelli che apprezzano ancora “la gentilezza delle donne modellate con amore e rispetto, i vestiti di cotonina a fiori, i visi gentili assorti in contemplazione”, talmente pochi che il baracchino che li vende è diventato mèta di raffinati critici d’arte.

A livello sintattico i periodi sono brevi, ma sono pochi quelli costituiti da una sola proposizione (ad esempio: “I più belli sono in uno stato di sognante riposo”; “non si trovano nella folla contadinesca dei pupazzi nelle baracche”; “quei pupazzi popolari di una certa gentilezza comparvero soltanto per un paio di anni”; “dunque, vidi comparire, un certo anno, pupazzi espressionisti”; “e il baracchino è divenuto mèta di qualche raffinato critico d’arte”).
Il lessico è chiaro, anche se talvolta si fanno riferimenti a personaggi e a movimenti dando per scontato che il lettore sappia di cosa si parla: “dramma religioso di Feo Belcari”; “in seguito all’esotismo, negrismo, impressionismo, primitivismo nelle arti e nella letteratura”; “e in alcuni mi pareva di notare perfino parentele con Domenico Theotocopuli detto El Greco”. Le parole straniere presenti nell’articolo sono scritte in corsivo e sono pin-up girls e grooms; non compaiono parole o frasi scritte in qualche dialetto.
L’articolo è costruito come una grande metafora: si parla di figure del presepe antiche e moderne per associare il passaggio dall’una all’altra categoria al cambiamento dei costumi e dei valori nella società. Si stende per il testo anche un climax discendente: Alvaro - dopo essere partito dal fatto, la donazione del presepe alla città di Usala -, descrive le statuette tradizionali inquadrandole in modo positivo; trascura “le figurine ufficiali, accademiche, di grandi dimensioni, e che sono uguali sempre”, per approdare infine al disprezzo verso i pupazzi moderni. Di un senso dispregiativo nei confronti della modernità è emblema anche il titolo: “Perfino le pastorelle del presepio oggi imitano le ‘pin-up girls’”; rispetto al titolo dell’articolo analizzato in precedenza, “Le donne di Roma”, questa titolazione punta di più a catturare l’attenzione del lettore che, incuriosito dall’accostamento delle due immagini, è spinto maggiormente a leggere il testo sottostante.
Anche questa volta lo stile è personale anche se, piuttosto che su espressioni spiritose, Alvaro si concentra su giudizi e commenti: “Sono i soggetti su cui si esercita meglio il realismo dei figurinai, nonché una certa simbologia della vita”; “Siamo dominati inconsciamente dai fenomeni estetici e delle arti”; “pare che anche i pastorelli facciano parte di quel grande movimento attuale di fuga dalla condizione popolare, verso le aspirazioni della classe media e borghese”; “che pare il senso di tutti i conati rivoluzionari e delle rivoluzioni moderne”.

3.3. La rapidità

Calvino confessa, nel capitolo delle Lezioni americane dedicato alla rapidità, di aver scelto fin dalla giovinezza un motto da seguire; due parole che compongono un’antica massima latina: “festina lente” . La frase potrebbe essere tradotta in italiano con “affrettati lentamente” ed è un paradosso: come si può abbracciare contemporaneamente la velocità e la calma? Eppure, queste parole, racchiudono il segreto della scrittura: essa richiede un lungo tempo di maturazione, di attesa, in cui bisogna imparare prima di tutto a leggere e ad ascoltare, per poi approdare all’idea che giunge improvvisa, fulminea, da catturare con rapidità per fermarla sulla carta. E la professione di giornalista è un paziente lavoro di lettura, di analisi, di selezione dei dati di un particolare evento, da rendere comprensibile per il lettore; tutto deve essere però compiuto nel più breve tempo possibile. Il giornalismo ha due facce, che corrispondono alla lentezza, alla pazienza di apprendere, e alla velocità di situazioni improvvise; in Storia del giornalismo italiano è riportato questo aneddoto, che si trova in una lettera scritta a Gaetano Afeltra, desideroso di diventare giornalista, dal fratello Cesare, che già lavora al Corriere della Sera: “Tu pensi che fare il giornalista sia scrivere articoli, lettere, corrispondenze, viaggiare, avere soltanto ingresso libero ai teatri e alle feste, fare delle conoscenze, avere facilmente amanti ecc. Questa è la parte scintillante del mestiere che abbacina e che travolge moltissima gente. Ma non sai che per arrivare ad occupare un posto appena degno bisogna fare dei lunghi tirocini, delle lunghe attese, delle lunghe vigilie. Bisogna innanzitutto cominciare col virgolare, correggere, articolare le notizie, i telegrammi, le corrispondenze della Agenzia Stefani e degli altri. Bisogna fare un tirocinio lento, insistente, esasperante. E poi, quando meno te lo aspetti, sei travolto da una situazione amministrativa, da un cambio di Direttore o da un altro accidente qualsiasi”.
Il motto “festina lente” si addice perfettamente anche a Corrado Alvaro; di lui si dice in Scritti dispersi: “Alvaro l’ha capito fin dall’inizio che la letteratura del Novecento deve essere molto veloce. Anche a lui si addice una maggiore rapidità di scrittura (lo pensano quasi tutti i lettori del “velocissimo” diario Quasi una vita), ma non è che con la sua lentezza arrivi meno lontano […]. Pirandello, Bontempelli e Savinio vanno nel profondo in discesa vericale, come una trivella; lui invece con un movimento circolare […]. I suoi tre amici si fondavano sul bersaglio usando la scorciatoia, Alvaro invece accerchia per costringere alla resa” . Viene inoltre scritto: “Alvaro è capace di passare agevolmente e secondo la misura di una quasi proverbiale “lentezza” che accerchia gli argomenti, da Pirandello o Conrad o Tolstoj alla descrizione frizzante, da consumato cronista mondano, dell’arrivo a Roma, nel 1926, di due celebri divi americani, Douglas Fairbanks e Mary Pickford”.
Ci si potrebbe chiedere perché, se il concetto principe che Calvino vuole trasmettere è la rapidità, si celebra anche la lentezza, il suo opposto; l’autore precisa che ogni valore da lui scelto non pretende d’escludere il valore contrario (nel primo capitolo esalta la leggerezza della pensosità); spiega questa idea utilizzando le immagini di Mercurio, che spazia agile e veloce e crea un collegamento tra il cielo e la terra, e di Vulcano, dio claudicante chiuso nella sua fucina, dove fabbrica con pazienza oggetti rifiniti in ogni particolare. Così come Mercurio collega gli dei e gli uomini grazie alla sua velocità, il giornalista è il mediatore intellettuale tra il lettore/l’ascoltatore/il telespettatore e l’oggetto considerato; e, così come Vulcano fabbrica e rifinisce con pazienza tutti i dettagli, il messaggio da inviare non potrebbe essere ottenuto se non con aggiustamenti pazienti e meticolosi. “Mercurio e Vulcano rappresentano le due funzioni vitali inseparabili e complementari: Mercurio la sintonia [è l’autore che scrive in corsivo questa parola], ossia la partecipazione al mondo intorno a noi; Vulcano la focalità, [anche quest’altro termine è evidenziato con il corsivo dall’autore] ossia la concentrazione costruttiva” . Entrambe sono indispensabili per il giornalista, che deve possedere curiosità, interessarsi di tutto quanto accade nel mondo, e insieme essere in grado di selezionare ciò che è degno di essere trasmesso.
Il Professor Giuseppe Rando scrive che Corrado Alvaro è considerato il “primo, grande ‘inviato’ del giornalismo italiano” ; in ogni Paese, partecipa della vita che si svolge intorno a lui (sintonia), e poi diventa tramite tra quella cultura e gli italiani che leggono i suoi articoli: in questo senso può essere associato alla figura di Mercurio. Nello stesso tempo, cerca di soffermarsi su alcuni aspetti di ciò che osserva (focalità), innescando il meccanismo della riflessione da tradurre nella scrittura: emerge così anche l’immagine di Vulcano. Verranno analizzati adesso, per quanto riguarda la categoria della rapidità, degli scritti giornalistici di Alvaro relativi ai suoi reportage all’estero.

Colore di Copenaghen, La Stampa, 18 maggio 1952
Alvaro esordisce informando il lettore del luogo in cui si trova: è a bordo di un battello a vapore diretto verso la Danimarca. Si nota subito l’uso di verbi che presuppongono un ritorno - “riportandoci”, “rivedevamo” -: l’autore mostra in questo modo che, in passato, ha già visitato lo stesso posto. Inoltre, i verbi sono tutti al plurale: chi sia il reale soggetto si capisce alla terza riga, dove si legge “noi meridionali”; meridionale è Alvaro e tutti coloro originari del sud Italia, ma anche tutti gli italiani, che si trovano a sud dell’Europa rispetto alla Danimarca: il pezzo è destinato ad un quotidiano italiano e, scrivendo al plurale, Alvaro vuole dare a chi legge da lontano l’impressione di trovarsi con lui a bordo del battello, di vedere gli stessi oggetti e le stesse persone. È il mediatore intellettuale tra due realtà, come Mercurio, e attraverso lo sforzo intellettuale riesce, a poco a poco, a fermare nella scrittura ciò che vede per poterlo trasmettere, accostandosi così a Vulcano. Crea, però, anche una separazione tra due mondi, utilizzando il noi e facendo dunque presupporre ci sia dall’altra parte un loro (nei precedenti articoli, era stata evidenziata la differenza percepita tra Italia ed Europa).
Alvaro è parte della realtà in cui si trova e che descrive (si trova sul battello), ma è anche un osservatore esterno (costruisce un confine tra noi e loro); è partecipe di quanto accade e vuole rendere indirettamente consapevole della sua esperienza anche chi legge (sintonia) e, riuscendo a guardare ciò che lo circonda con occhio critico, può isolare dei particolari (focalità). Il primo oggetto della sua attenzione è una donna, una donna danese che fuma il sigaro; Alvaro riflette sul diverso modo di leggere questa immagine da parte di “noi meridionali” e delle stesse donne svedesi: per entrambi è un tipo di donna eccessivamente mascolinizzato, solo che per i primi assume un significato più esotico, perché sono rare nell’Italia del 1952 le donne che fumano e, vederne una con un sigaro in bocca fa pensare a “certe figurine di indigene su vecchi pacchetti di generi coloniali, anziane indios tra le cui labbra il sigaro e la pipa sono una specie di ritorno a un sesso indistinto, viriloide […], di una riacquistata libertà dalle passioni”. Per una nordica, invece, l’immagine assume un altro significato: “c’è dietro l’evocazione di una lunga lotta di emancipazione, piena di drammi e di drammi teatrali, e infine di una solitudine raggiunta ma tuttavia non rassegnata e piena di spirito polemico”. L’indagine della condizione femminile, tenuta in considerazione associandola alla categoria della leggerezza, torna spesso negli articoli di Alvaro. Successivamente, c’è una descrizione fisica di questa figura. La riflessione è stata compiuta e, l’autore, si allontana dal particolare appena osservato per concentrarsi sull’intera imbarcazione, ai suoi occhi un palazzo galleggiante, con grandi sale da pranzo e salotti da caffè: se prima era stata indicata come “vapore”, adesso è un ferry-boat; se in precedenza si parlava genericamente di Danimarca, ora si precisa che il viaggio è tra Malmo ed Elsinora. Alvaro si concentra poi su un altro particolare: l’uso dell’alcool; viene messo in risalto un altro contrasto, tra la Danimarca e la Svezia, rispetto a tale abitudine: nella prima, tale bevanda è di libero uso mentre, nella seconda, l’assunzione di sostanze alcooliche è regolata da leggi più ferree. Confrontando la nazione in cui si trova, la Danimarca, con la Svezia, Alvaro ricorda implicitamente di averla visitata.
Si potrebbe affermare che l’articolo è costruito su contrapposizioni: prima la distinzione tra noi e loro, poi tra Danimarca e Svezia e, ora, tra finzione e realtà. Alvaro approda ad Helsingor; il lettore lo comprende perché il nuovo paragrafo si apre con la parola “Elsinora”, il nome della città italianizzato, seguita dal punto. Nel linguaggio giornalistico, quando si scrive da un Paese straniero, si utilizza spesso questo sistema per far risaltare, come primo elemento, il luogo in cui si è svolto il fatto di cui si tratterà nell’articolo. In questo modo, l’autore contestualizza e fa capire al lettore di trovarsi sul posto (sintonia). Successivamente Alvaro si concentra su un particolare (focalità): il castello di Amleto. Shakespeare ha scelto la Danimarca come sfondo del suo dramma e un castello di Helsingor è il luogo in cui lo colloca. Amleto non ne ha mai calpestato i pavimenti e Ofelia non è mai annegata tra i fiori delle acque del Sund, eppure tutti i visitatori si recano lì “come a un appuntamento, come se soltanto per ognuno di noi risuonassero le parole del famoso monologo”. Il drammaturgo prende spunto da un luogo reale e crea una storia inventata ma verosimile; poi è la creazione tragica a impossessarsi del castello; la fantasia supera il vero, tanto che la si vorrebbe vedere e, una volta scoperta la verità, non si può che restare delusi: “Si chiese al custode, dopo un lungo giro impaziente come in un teatro vuoto alla ricerca di un grande attore, dove fossero i ricordi di Amleto, dove la tomba; la risposta fu: Qui Amleto non ci è mai stato, come non ci è mai stato Shakespeare […]”. La delusione è tanto grande che si preferirebbe essere ancora ingannati, “Non c’è neppure il tentativo di una tomba falsa, che costerebbe così poco agli archeologi e farebbe tanto piacere ai turisti”. C’è poi una descrizione di tanti oggetti, che si trovano nel museo del castello. Alvaro è il visitatore che percorre le stanze diventandone per un momento parte (sintonia) e seleziona quei frammenti significativi (focalità), come delle figure di donne in diversi atteggiamenti - torna l’immagine femminile -.
La contrapposizione iniziale tra noi e loro è presente anche nell’ultimo paragrafo: “noi latini, troppo più vecchi, non vediamo l’ora di disfarci della tradizione, […] mentre a Copenaghen i postini indossano ancora la giacca rosso arancione dei vecchi postiglioni, e dello stesso colore sono i furgoni della posta […]. Questo è il vecchio colore d’un sigillo di ceralacca”. Alvaro scrive la parola “contrasto” per rimarcare la differenza tra i due popoli, il suo e quello che lo circonda: è una strana impressione per un italiano osservare il cambio della guardia, trovarsi immerso (sintonia) in un contesto cittadino che ricorda la pietra e l’aridità architettonica della vita urbana, dopo essere passato dai canali con le barche e l’odore del mare. Invece per i danesi è la normalità. I soldati portano il colbacco, e Alvaro osserva attentamente uno di questi (focalità): nota che un punto è meno ricoperto dal pelo e immagina sia come un vecchio giocattolo, che si riprende in mano dopo tanto tempo per ricordare l’infanzia, ritrovandolo un po’ danneggiato dalle tarme.
L’autore riporta infine alcuni pensieri e commenti su un’ipotetica integrazione tra i due popoli: per qualcuno si è troppo diversi, altri invece riscontrano una somiglianza. Degna di attenzione è per il sanluchese questa frase:“‘Ma non avete capito che l’impedimento è la cultura?’ La cultura ci unisce, parliamo lo stesso linguaggio per essa, ce la scambiamo, la arricchiamo scambiandocela. E poi ci divide creando ideali diversi, consolidando la lingua nazionale, un modo di pensare nazionale, una gerarchia di valori; quel tanto di intimo, incomunicabile, intraducibile”. La considerazione delle differenze culturali aveva portato Alvaro (si è visto nell’analisi dei precedenti articoli) a intuire che a Roma non si sarebbe mai potuta avere l’impressione di trovarsi a Parigi, e ad evidenziare il fatto che in Svezia, per montare un presepe italiano, ci sia bisogno delle istruzioni.

Le frasi sono costruite con periodi di media lunghezza (ad esempio: “Credemmo di lanciarci alla scoperta di una memoria qualsiasi, seguendo un gruppo di ragazze con la loro insegnante, ma esse andavano a visitare le casematte lungo il fossato del castello”); l’unica parola seguita dal punto, “Elsinora”, è un caso isolato ed è già stata spiegata la sua funzione.
Il lessico è chiaro e non ambiguo; sono presenti delle parole straniere scritte in corsvo: indios e ferry-boat. Alvaro presuppone che chi legge sappia chi siano Shakespeare e alcuni personaggi delle sue tragedie (Amleto, Ofelia, Giulietta).
Sono individuabili delle figure retoriche, come il climax “Il ferry-boat tra Malmo ed Elsinora (Helsingor) è una specie di palazzo viaggiante, con grandi sale da pranzo e salotti da caffè; i tabacchi vi sono in franchigia, l’alcool è di libero uso”; si tratta di un climax discendente, perché si parte nominando l’oggetto più grande (l’imbarcazione), si passa poi a degli elementi contenuti al suo interno (sale da pranzo e salotti da caffè), per concentrarsi infine su un particolare (il libero uso di alcool). Numerosi sono poi i paragoni: “ci andavamo come a un appuntamento, come se soltanto per ognuno di noi risuonassero le parole del famoso monologo”; “come in un teatro vuoto alla ricerca di un grande attore”; “come se li avessero spostati su di un piano ideale, da una vecchia stampa”; “ci fa battere il cuore come a bambini”; “è come se avessimo cavato fuori un giocattolo dell’infanzia, e lo trovassimo tarmato in un punto”; “l’alfiere appare tenendo la bandiera come una lancia”.
Lo stile adottato dall’autore è personale, il testo è infarcito di riflessioni e non si può fare a meno di considerare il collegamento con Giacomo Leopardi: come il poeta preferiva la fantasia, l’immaginazione all’ “arido vero” che uccide le speranze, così Alvaro vuole credere che nel castello sia avvenuto davvero il dramma Shakespeariano; meglio una bugia che mantenga il suo cuore riscaldato dalla finzione, piuttosto che la verità, inevitabilmente portatrice di delusione.


Alberghi d’Oriente, La Stampa, 1 aprile 1933

Le differenze culturali compaiono anche in questo articolo, in cui Corrado Alvaro racconta di una sua esperienza a Istanbul. Sembra un’impresa trovare un albergo in cui si possa godere di una certa tranquillità o in cui non si rischi di restare feriti. L’autore è in un luogo straniero, non comprende le parole che gli vengono rivolte ed è il Console italiano, appartenente al suo mondo, a intervenire e a “salvarlo” - l’autore utilizza la parola “liberarmi” -. Anche in questa situazione di incomunicabilità estrema, chi scrive osserva comunque ciò che gli sta intorno e riesce ad estrarre da quell’ambiente che ai suoi occhi appare un caos, dei particolari da trasmettere. Sintonia e focalità si possono dunque scorgere anche in questo testo. Sebbene Alvaro si senta distante dalla realtà di Istanbul per via della mentalità e delle abitudini diverse, rimane come incantato da certe immagini: i servi seduti sul tappeto delle scale, i mobili, le sale. C’è una donna (torna la figura femminile) cinese, estranea come l’osservatore a quella realtà e come lui “salvata” da qualcosa che le consente di aggrapparsi alla sua terra lontana: un suo libro composto da lunghi fogli legati in alto da una piccola asta; si rifugia nel suo mondo, quello della lettura, e dà vita a una realtà diversa anche per quanti la osservano; la stanza, il divano rosso non sono più gli stessi, cambiano del tutto aspetto quando quella esile figura diventa parte di essi: “Così formava tutto un paesaggio, un ambiente. Si accorse che molti la guardavano, quasi fosse su un palcoscenico […]”.
Si potrebbe associare ad ogni albergo una parola e, per il primo visitato, quella giusta potrebbe essere “ambiguità”: “di mattina era cupo come una prigione […], pareva di essere caduti in una trappola”; di sera, invece, Alvaro si trova al centro di una situazione opposta: “Feci per salire le scale, e mi sentii stretto da non so quante braccia, e due donne che mi avevano preso per prime mi contendevano come fossi un oggetto”. Ciò che all’inizio sembrava un luogo deserto, si rivela essere in realtà una squallida casa d’appuntamenti. Il termine che caratterizza il secondo albergo è invece “trascuratezza”: non si può fare a meno di notare, abbandonati sui divani e sui pouf, gli avanzi di alcuni pasti, fa freddo, il vetro della finestra è rotto e l’autore racconta “Andai per scostare la tenda della finestra, e mi crollò sulla testa, da un’altezza di quasi tre metri, tutta l’impalcatura”.
In Turchia Alvaro percepisce una certa incomunicabilità tra sé e ciò che lo circonda, la cinesina si crea un mondo che le permetta di restare legata alle sue radici e, nel terzo albergo, la lista degli “estranei” si allunga, perché l’autore scorge le tracce di un altro popolo. Il luogo era stato un circolo greco, prima della cacciata di quella popolazione, ed erano rimasti molti oggetti a testimoniarne la presenza, ammucchiati in una soffitta proprio sopra la camera del giornalista: “in quei resti di una vita sociale di esiliati, di carnevali fuggiti, di giochi, di trattenimenti, c’era non so che romanzo, e l’eterno sotterfugio puerile dell’amore. Dov’erano le signore? Dove gli amanti?” I nuovi abitanti del palazzo, non più circolo ma albergo, mostrano di non essersi ancora del tutto abituati al nuovo ambiente: “Nelle sale dell’albergo, nessuno si era ancora adattato a quelle sale, a quella vita […]”. Alvaro si sente allora accomunato a questa gente, si trova nella stessa condizione; è qui che instaura un legame: con il curdo Alì, che parla anche qualche parola di italiano. Scopre un altro punto di vista da cui osservare il mondo orientale, che ora non gli sembra tanto diverso da quello che ha lasciato: “offriva da fumare agli ospiti con quella uguaglianza che in Oriente rende la vita tanto semplice”. Questo terzo albergo potrebbe essere descritto con la parola “uguaglianza”, che rende il caos iniziale più semplice e scioglie l’incomunicabilità.
Alvaro incontra delle persone: due giovani ingegneri italiani e una donna turca, addetta alle pulizie. Ancora una volta, dalla sintonia si passa alla focalità e ritorna la predilezione per l’immagine femminile: l’autore descrive fisicamente la donna, vestita di nero, con un fazzoletto sulla testa di cui stringe le cocche fra i denti, e ne racconta la storia; non importa che nessuno dei due capisca il linguaggio dell’altro, perché si sentono già vicini: lei non si allontana, nonostante tremi per la vicinanza di uno straniero, e lui arriva addirittura ad associarla alle donne della sua terra, perché i termini usati per la descrizione - “con un fazzoletto bianco sulla testa di cui stringeva le cocche fra i denti […]” - sono gli stessi con cui dipinge “Le donne che portano pesi” nel Nostro tempo e la speranza - “ stringono tra i denti la cocca del fazzoletto di cui si coprono la testa” - .
Altre figure sono poi selezionate dall’autore: un lustrascarpe e una donna araba; Alvaro, a questo proposito, regala un’altra splendida immagine di leggerezza, sempre associata alla figura femminile: “Entrò in quella dimenticanza, solitudine, sospensione, come una presenza furtiva, e la vidi poi, nell’angolo più oscuro della sala, seduta sulle gambe incrociate, che consumava una modesta colazione”.
Abituatosi alla realtà della Turchia, Alvaro non solo dimentica ogni distinzione tra la sua cultura e quella orientale, ma si sente ormai parte del mondo che all’inizio gli appariva tanto distante e confuso. Così tanto vicino a quella realtà, che ora è la sua ad apparirgli lontana: “Quando m’imbarcai […], quella vita attorno alle tavole bene imbandite mi parve tanto convenzionale, preoccupata di stabilire differenze e distinzioni, che la civiltà mi parve faticosa e inutilmente complicata, un lavoro da riprendere […]”.

A livello sintattico i periodi sono di media lunghezza, anche se le frasi sono più corte rispetto all’altro articolo analizzato in questa sezione (ad esempio: “gli alberghi alla turca li dovevo conoscere in Asia”; “si chiamava Alì”).
Il lessico è abbastanza chiaro; ci sono delle frasi straniere scritte in corsivo: di una - Maintenant allez dans votre -, viene fornita la traduzione in modo indiretto qualche riga successiva - “mi ricordai con una violenta esasperazione di quelle parole imperative che mi avevano detto di andare nella mia stanza” -; mentre il significato delle altre si deduce dal contesto, visto che il giornalista racconta di una non felice esperienza in una casa d’appuntamento - Lires, lires! e Zwei lire, zwei! -; del secondo albergo descritto, si dice che doveva essere un vecchio han. Inoltre, sono scritti in corsivo i titoli di due libri che Alvaro trova nella soffitta sopra la sua stanza: Fisiologia dell’amore e De l’Amour. La frase dell’incipit, dell’attacco, oggi sarebbe da ritoccare: da “qualche volta mi sogno ancora di trovarmi in un albergo alla turca”, bisognerebbe togliere il “mi”.
Anche in questo caso, la figura retorica più utilizzata è quella del paragone; alcuni esempi: “gli occhi erano come la giada di certe loro statuine”; “vi stava come fosse sua proprietà”; “inseguiva le lettere in fila come stormi d’uccelli orientali”; “quasi fosse su un palcoscenico”; “come una stufa in un deserto”; “come una nave battuta di fianco dalla corrente”; “come se quel libro contenesse messaggi convenzionali”.
Lo stile adottato nella stesura del testo è personale; spesso Alvaro rende il lettore consapevole delle sue sensazioni e dei suoi pensieri: “ero irritato di aver ubbidito”; “pareva di essere caduti in una trappola”; “mi affrettavo a scendere per non fargli dispiacere”; “la civiltà mi parve faticosa e inutilmente complicata”.

Questa sezione è dedicata alla rapidità: nella scrittura, tale valore si traduce anche nel saper utilizzare sapientemente il tempo; è l’autore a decidere cosa tagliare, dove soffermarsi, quali aspetti selezionare. Ciò vale non solo per gli scrittori, ma anche per i giornalisti, che hanno un tempo preciso (si traduce in righe e colonne sulla carta e in minuti nel caso di un servizio televisivo) per poter trasmettere il messaggio. “[La] prontezza di adattamento,[l’] agilità dell’espressione e del pensiero” - parole di Calvino -, sono caratteristiche indispensabili per creare il ritmo, utilizzare il minor spazio possibile e fare in modo che chi legge si appassioni al testo e sia invogliato ad arrivare fino alla fine.

3.4. L’esattezza

Uno dei compiti fondamentali del giornalista è quello di essere chiaro. Deve fare in modo che i suoi testi siano comprensibili al lettore, eliminare la ridondanza, ogni elemento superfluo; la buona scrittura è quella del “togliere peso” , come scrive Calvino a proposito della leggerezza. D’altra parte, al giornalista è affidata anche un’altra missione: contribuire alla crescita della cultura e all’ampliamento del lessico. Sempre più oggi ci si esprime utilizzando un numero limitato di vocaboli, come se “un’epidemia pestilenziale - è Calvino a scrivere - abbia colpito l’umanità nella facoltà che più la caratterizza, cioè l’uso della parola, una peste del linguaggio che si manifesta come perdita di forza conoscitiva e di immediatezza, come automatismo che tende a livellare l’espressione sulle formule più generiche, anonime, astratte, a diluire i significati, a smussare le punte espressive, a spegnere ogni scintilla che sprizzi dallo scontro delle parole con nuove circostanze” . È la scrittura a dover rimediare a tale “malattia”, ma questo non significa che l’informazione debba lasciare il posto al mito del “bello scrivere”, bensì che è necessario abbandonare stereotipi, frasi fatte e banalità. Parole inutili. È questo a cui deve mirare il bravo giornalista, come dice Sergio Lepri: “L’uso di uno stile sobrio, scarno, privo quanto più possibile di aggettivi, lontano dai registri aulici, dotti, e letterari e vicino, invece, alla parola corrente; cioè un linguaggio semplice, chiaro, comprensibile per tutti non necessariamente porta, come qualcuno può temere, a un giornalismo piatto, scialbo, incolore, quindi noioso. Nessuno dei giornalisti migliori e più noti del momento si allontana da queste norme di scrittura e alcuni […] sono riusciti spesso, con la loro prosa, a raggiungere perfino effetti di poesia” . Scrivere può e deve essere uno strumento di comprensione dei fatti e insieme un modo per valorizzare la ricchezza della lingua nella quale ci si esprime: “La scrittura rappresenta uno strumento di comprensione dei fatti e delle situazioni, richiede un’educazione a cogliere le sfumature, a registrare la ricchezza della lingua italiana, a sottolineare la scelta puntuale e scrupolosa delle parole e degli aggettivi, a vedere come con pochi ma giusti termini si creino immagini indelebili senza ricorrere a giri di parole, a contorsionismi, a abusi di aggettivi” .
Chiarezza che non scada nella banalità e uso delle infinite potenzialità del linguaggio che non si trasformi in “bella scrittura”, lontana dalla quotidianità: è questo il segreto. Di Alvaro si dice, nell’Introduzione agli Scritti dispersi, che nei suoi articoli “c’è il poco che basta per dire tutto quello che conta, e che, in un narratore lirico, ‘canta’”. Esattezza è riuscire a comunicare così, tenendo come riferimento il centro ideale senza sbilanciarsi troppo verso uno dei due estremi. Per un giornalista esattezza è anche precisione estrema: deve esserci una verifica continua di ciò che si scrive; il controllo dei dati a disposizione, delle fonti, del significato delle parole.
Calvino afferma: “esattezza per me vuol dire soprattutto tre cose:
1. Un disegno dell’opera ben definito e ben calcolato.
2. L’evocazione di immagini visuali nitide, incisive, memorabili; in italiano abbiamo un
aggettivo che non esiste in inglese, icastico […].
3. Un linguaggio il più preciso possibile come lessico e come resa delle sfumature del
pensiero e dell’immaginazione” .
L’unico antidoto alla “peste del linguaggio”, che allo scrittore sembra intaccare non solo la parola ma tutto il mondo, sempre più esposto alla perdita di forma, è la letteratura . Solo lei può creare degli “anticorpi” che sappiano sconfiggere il malessere sempre più diffuso.
Alvaro “non placca la scrittura né abusa con i brillanti” : è quello stile ideale al quale tendere, di cui si è sopra parlato. Vicina alla concezione di Calvino si trova anche quella del sanluchese: egli lamenta il fatto che “la cultura moderna, nella sua manifestazione più controllabile, è una cultura di massa” ; parla di abbassamento del tono culturale e anche semplicemente di un tono civile, di involgarimento degli spettacoli e di altre forme artistiche. Ai suoi occhi, la società ha dimenticato i valori di un tempo (significativo a questo proposito è l’articolo già analizzato dal titolo “Perfino le pastorelle del presepio oggi imitano le ‘pin-up girls’”) e, se per Calvino il rimedio alla “peste” è la letteratura, Alvaro ne parla inserendola spesso come argomento nei quotidiani (senza contare che è uno dei più grandi scrittori italiani del Novecento, ma in questa tesi si prende in considerazione Corrado Alvaro giornalista): per questo verrà analizzato l’articolo “Letteratura”, in cui il giornalista discute sulle tendenze letterarie moderne.
Adesso molti pensieri di Corrado Alvaro sembrano scontati, ma c’è da sottolineare che quando il sanluchese scrive si respira tutta un’altra atmosfera; a sostegno di questa affermazione basti citare il suo giudizio positivo su Pirandello, oggi unanime ma contrastato ai suoi tempi, “quando i più benevoli critici crociani al massimo salvavano il novelliere in quanto epigono del verismo” ; oppure anche una sua frase del 1929 riferita ai tedeschi, che suona come un presentimento: “Ballavano come se marciassero”. La sua acuta sensibilità lo trasporta dunque in avanti: è sorprendente la somiglianza che si nota leggendo un suo pensiero, scritto in un testo del Nostro tempo e la speranza, pubblicato nel 1952, “Pratica di letteratura”, e alcune frasi di Gianni Riotta in un articolo apparso sul Corriere della Sera il 27 aprile 2005; Riotta sostiene che, se le vendite dei giornali diminuiscono, la colpa non è tutta della gente che non legge, ma anche di chi confeziona e gestisce tali prodotti: “troppo spesso editori e direttori trattano i lettori da stupidi”; e Alvaro già aveva individuato il problema: “i lettori si fanno da sé, maturano, e non bisogna premerli né sbigottirli. Bisogna non dare ad essi un sospetto di inferiorità” .
Se la letteratura è il rimedio alla malattia moderna, lo scrittore è il medico/farmacista. Come può produrre la medicina? Alvaro indaga anche questo aspetto, nell’articolo “Immagine del poeta”.

Letteratura, Il Mondo, 22 agosto 1924
Alvaro cura sul Mondo una rubrica: “Lo specchio storto”. Il titolo dell’articolo del 22 agosto 1924 è “Letteratura” e il Professor Giuseppe Rando lo colloca nel suo schedario sotto la voce “Cronache e note letterarie” ; si tratta, infatti, di riflessioni sulle tendenze letterarie moderne. Il giornalista prende come oggetto d’indagine la letteratura europea e ne considera gli sviluppi avvenuti in poco meno di cinque anni: sembra assumere il ruolo di uno scienziato, che si sia occupato di un determinato fenomeno per un certo periodo e ora sia pronto a rendere noti i risultati delle sue osservazioni; un approccio simile era stato sottolineato anche a proposito dell’articolo “Le donne di Roma”, solo che l’autore in quel caso aveva l’intenzione di creare un effetto di ironia, che in questo testo manca (si parla al passato perché l’altro articolo è stato analizzato in precedenza, ma in realtà è steso dopo, nel 1926). Inoltre, nell’altro pezzo si parla della “nuova donna di Roma” come di un miscuglio tra tante tipologie di bellezza italiana e, nel testo che si considera adesso, la letteratura europea è vista come il risultato dell’unione di caratteristiche appartenenti a diverse culture e Paesi; anche considerando questo aspetto, non si nota alcuna ironia in “Letteratura” e non si può, invece, fare a meno di sorridere leggendo, a proposito delle “Donne di Roma”, di uno strano processo naturale che porta elementi differenti ad armonizzarsi col tempo su un viso femminile. I vari stili letterari europei hanno portato alla creazione di una nuova forma a cui tutti approdano: “l’umorismo inglese e l’ironia francese messi insieme, compensati reciprocamente e imitati, hanno formato una tendenza verso la letteratura di fantasia. A questa si arriva da tutte le parti e da tutte le scuole con una facilità sospetta: servono allo scopo il misticismo russo, la psicologia francese, il verismo italiano, il neoclassicismo”.
Il fine dei nuovi scrittori è, secondo Alvaro, inaugurare un “periodo in cui l’arte abbia un qualsiasi aspetto avventuroso”, liberandosi degli ultimi residui della psicologia che aveva primeggiato fino a qualche anno prima. Secondo il giornalista, però, l’avventura è inseguita servendosi “delle sole combinazioni di parole”, e questo è negativo perché la prosa è arrivata ad un certo punto all’immobilità, all’“impossibilità di raccontare e di comunicare” e, la scrittura, si è trovata “indirizzata ad esprimere solo un mondo limitato e con un gergo già stabilito”. Calvino si preoccupa del fatto che sempre più le persone arrivino ad esprimersi con le stesse, comuni parole, senza tenere conto delle ricche sfumature della lingua. Se però è la scrittura ad ammalarsi, quella che dovrebbe essere il rimedio da usare contro la “peste del linguaggio”, è la fine. Ma Alvaro non parla ancora di questa malattia, sebbene ne senta già precocemente i sintomi con lo sviluppo della nuova società di massa: il “mondo limitato” e il “gergo già stabilito” sono quelli degli illustri scritti precedenti, che si tenta di capovolgere attraverso una forma speciale di umorismo: “gli scrittori hanno l’aria di collaborare a una enciclopedia di cui ognuno tratta una voce servendosi della falsariga tradizionale per investirla e metterla in ridicolo”. Le situazioni abusate sono dunque quelle già considerate in passato, che si cerca di rivisitare in chiave ironica.
Alvaro, nella cui anima convivono due scritture, una della prosa e l’altra del giornalismo, non può che trovare una giustificazione all’atteggiamento degli scrittori, categoria di cui fa parte, spiegando che il tornare a vecchi modelli, seppur stravolgendoli, è un modo per renderli ancora viventi; è il tentativo di porre dei punti fermi nel mondo letterario fuggevole e terribilmente transitorio, perché ogni modello che si affacci come nuovo è destinato al superamento: “si direbbe che gli scrittori temendo la transitorietà di tutto un mondo verosimile, vogliano dargli una sopravvivenza traendone simboli, cifre, proiezioni e falsificazioni che gli diano un’apparenza di attonita immobilità […]”. Si è fatto riferimento, sopra, alla sensibilità di Alvaro, che lo porta a precorrere i tempi: indagando la letteratura europea degli ultimi anni, legge le tendenze profilatesi come una volontà di conservare, fino a che sia possibile, fino a “quando tutte le combinazioni di parole saranno esaurite e i sottintesi saranno sfumati”, il mondo letterario passeggero.
Nella realtà di oggi, non è solo la letteratura ad essere in continuo mutamento: è il mondo intero a non avere alcuna forma definita - Calvino scrive che non è solo il linguaggio ad essere intaccato dal male, ma anche le immagini e il mondo stesso: “la peste colpisce anche la vita delle persone e la storia delle nazioni, rende tutte le storie informi, casuali, confuse, senza principio né fine. Il mio disagio è per la perdita di forma che constato nella vita […]” -. È una modernità che non si cristallizza in nessuna forma, che sfugge continuamente ed è inafferrabile, Bauman parla di “modernità liquida” . E, oggi, chi può mettere dei paletti per fermare il flusso che scorre inarrestabile è solo la letteratura, che si sofferma su quanto accade cercando di trovare sempre una spiegazione.

L’articolo è costruito con periodi medio-lunghi (ad esempio: “A questa si arriva da tutte le parti e da tutte le scuole con una facilità sospetta: servono allo scopo il misticismo russo, la psicologia francese, il verismi italiano, il neoclassicismo”; “Quando poi la prosa assunse una forma consunta fino al punto da essere inadatta a qualsiasi movimento, aveva perduto ogni possibilità di raccontare e di comunicare”; “È un divertimento muto e solitario, giacchè il primo personaggio di tale arte è lo stesso autore che agisce e si fa sorprendere in uno stato di eccessiva preoccupazione”).
Il lessico non è ambiguo, tuttavia per comprendere il senso dell’articolo è necessario che il lettore abbia delle conoscenze - si nominano delle correnti letterarie, come il verismo e il neoclassicismo -. Alvaro intraprende una piccola storia della Letteratura degli ultimi anni - scrive nel 1924 - concentrandosi sulle caratteristiche assunte dalla prosa e sulle nuove tendenze emergenti; esplora un mondo dall’interno, in quanto parla del presente - “la letteratura d’Europa sta cambiando aspetto” -, fa riferimento al passato, per tracciare un percorso – “abbiamo avuto vent’anni di lavorio ad uso esclusivamente sperimentale” - e immagina il futuro – “[…] i vecchi vocaboli torneranno con aria nuova, e la semplice interpretazione della natura diverrà quella grandiosa avventura che fu già pei grandi pittori italiani” -.
Non sono presenti delle parole straniere e non ci sono scritte in corsivo dell’autore. Nemmeno appaiono figure retoriche rilevanti.
Lo stile adottato da Alvaro è personale: il testo è infarcito di riflessioni che mostrano come Alvaro vede il mondo della letteratura del suo tempo; a un certo punto, utilizza un verbo alla prima persona plurale per coinvolgere il lettore: “Abbiamo avuto vent’anni […]”; e anche uno alla prima persona singolare, per esplicitare un suo pensiero: “credo che coi colori sia accaduto quasi lo stesso”.

Immagine del poeta, Il Mondo, 12 settembre 1923
La letteratura può salvare dalla malattia. Perché ciò avvenga è necessario, però, che qualcuno le dia forma; qualcuno che non sia intaccato dal male, che sia capace di vedere la vita diversamente da come la maggior parte degli uomini la intende: il letterato o, il poeta.
In questo articolo Alvaro racconta una storia per trasmettere la sua figura ideale di poeta. Calvino afferma che “esattezza” vuol dire per lui tre cose : innanzitutto, un disegno dell’opera ben definito e ben calcolato e, analizzando il testo, si osserva che il giornalista utilizza il racconto per uno scopo, vuole che ai lettori arrivi il suo messaggio, e non si perde in lunghi discorsi, non abbandona mai la strada che ha scelto di seguire. Poi, esattezza significa evocazione di immagini: leggendo le frasi, si ha l’impressione di vedere il pastore che torna a casa, che resta immobile una volta avvenuta la tragedia, che sale sulla montagna con la sua zampogna. Perfino il titolo suggerisce qualcosa di icastico: “Immagine del poeta”; invita il lettore a dare vita nella propria mente alle parole che osserva con gli occhi e a cui attribuisce un significato. Il linguaggio, infine, deve saper riprodurre le sfumature del pensiero e dell’immaginazione: Alvaro descrive tante scene concatenate e riesce a rendere i sentimenti del personaggio protagonista senza nominare i termini corrispondenti ma creando l’atmosfera; il pastore si abbandona al pianto mentre suona il suo strumento e, sebbene non compaia la parola “disperazione”, si comprende lo stato d’animo di estrema sofferenza: “Lui piange a dirotto, e più piange quando il canto e il suono son pieni, che gli fanno sentire lo stupore d’esser vivo, d’esser lui, e tutti i suoi pensieri e ricordi affiorano come rottami su un fiume, e gli fanno intendere, ora sì, d’essere solo”.
L’attacco dell’articolo risponde alle cinque w: Alvaro inizia scrivendo il luogo in cui il fatto è avvenuto - “Al mio paese” -, indica il protagonista della vicenda - “un pastore” -, quando si è svolto l’evento - “alla luna nuova di marzo” -, ciò che è accaduto - “ha trovato la moglie malata” -; il perché manca: non c’è necessariamente un motivo per cui le persone si ammalano, può succedere e basta. Allora perché rendere questo episodio degno di essere pubblicato? Non risponde nemmeno ai criteri di notiziabilità: non è attuale, perché il testo è del 12 settembre e la storia si è svolta quando c’era “la luna nuova di marzo”; non è di pubblico interesse: si parla di un piccolo paese e il quotidiano per il quale Alvaro scrive è nazionale; l’avvenimento è vicino a pochi lettori; i personaggi non hanno guadagnato visibilità nella società, anzi, non sono neanche identificabili, vengono descritti solo in base al loro status sociale - il pastore, la moglie, il medico -; il fatto non è inusuale. Anche l’utilizzo delle w è impreciso: non si riesce a inquadrare la vicenda in coordinate spazio-temporali ben definite, tutto rimane vago; il linguaggio di Alvaro è decisamente personale, non nomina neppure il paese di cui scrive, che è indicato solo come “il mio paese”. Questo è lo spirito dell’elzeviro classico: non si tratta di cronaca, ma di un mezzo per dare voce ai propri pensieri e innescare la riflessione in chi legge; di una nicchia all’interno del giornale che rappresenta l’evasione e si occupa dell’uomo in generale. Per questo non è importante dove si sia svolta la storia nè chi siano i reali protagonisti; è una grande metafora che l’autore utilizza per trasmettere un pensiero.
Il testo è molto descrittivo: nel primo paragrafo Alvaro segue ogni gesto del pastore, si sofferma sugli oggetti presenti nella stanza…Sembra quasi di vedere un film, in cui le diverse inquadrature mostrano varie scene, immortalando anche dettagli che raccontano la vita umile dei pastori – nell’Introduzione agli Scritti dispersi, Walter Pedullà scrive: “preferisce la vita, da trasmettere in presa diretta, dovunque essa si annidi. Alvaro non è mai un osservatore superficiale, tanto meno se si fissa su un particolare esterno. Gliel’aveva ricordato il cinema che nel Novecento si fa arte col particolare e col dettaglio. Da una foglia o da un seme Alvaro sapeva arrivare alle radici” -; oggetti capaci da soli di raccontare un mondo: “[…] sul letto sotto la cesta appesa all’architrave, piena della nuova infornata di pane […]”. L’autore si serve degli oggetti e dei gesti delle persone per trasmettere un senso di tristezza; non si dice esplicitamente che la donna è prossima a morire, ma si comprende da altre parole: “c’è anche il pane fatto a croce che ella chissà se lo vedrà, perché si mangia per ultimo. È passato il medico, ha detto alcune parole, ha lasciato un biglietto su cui è scritto il nome della medicina, e se n’è andato via con quella sua testa dritta nella quale deve esserci scritta la sentenza della moglie del pastore”. Oltre all’evocazione di immagini, c’è anche la presenza dei suoni: la moglie del pastore, malata, si lamenta, e il medico pronuncia alcune parole.
Nel secondo paragrafo l’autore si proietta in avanti: il protagonista conosce le abitudini del paese in cui vive e vede gli altri pastori partecipare il giorno dopo, domenica, alle funzioni sacre e poi radunarsi in piazza prima del pranzo, prima di arrivare a casa. Sa già che non sarà con loro, si sente estraneo al gruppo, non in sintonia, a causa della dolorosa situazione che lo rende incapace di condurre la solita, abitudinaria, esistenza. Si separa dagli altri, da chi può continuare la solita vita, non scossa dalla tragedia imminente; crea una barriera che lo isola da chi può ancora godere di una condizione di normalità: “Tutti gli altri pastori che sono tornati dai monti, a chi fa prima ad arrivare a casa dove la moglie sta levando la schiuma alla pentola”. Emerge la prima caratteristica del poeta: il sentirsi diverso dagli altri uomini. Calvino scrive, nel saggio sulla rapidità: “Certo la letteratura non sarebbe mai esistita se una parte degli esseri umani non fosse stata incline a una forte introversione […]” . Anche in queste righe, oltre alle immagini, importanti sono i suoni: “la campanella dell’adorazione, appena suona mezzogiorno, dandosi la voce e ridendo”. Il pastore-poeta è fuori da questa realtà; per lui esiste un mondo diverso: quello della condizione in cui è immerso, che trascina il pastore oltre la vita dei suoi compagni e il poeta “a una scontentezza per il mondo com’è - sono parole di Calvino -, a un dimenticarsi delle ore e dei giorni fissando lo sguardo sull’immobilità delle parole mute”.
Evidenziate sulla pagina perché inserite tra due spazi bianchi, ci sono le frasi che annunciano il triste evento: “Al mattino, al primo suono della campana, la moglie del pastore s’è voltata dall’altra parte del muro, ha cessato di lamentarsi, è spirata”. Alvaro descrive la cruda verità. Ancora una volta immagini e suoni sono affiancati: la donna che si gira, i rintocchi della campana, il termine dei lamenti.
All’inizio dell’articolo si dice che il pastore torna a casa, e questo presuppone un movimento. Da quando si accorge della terribile situazione, è descritto solo in termini di immobilità: rimane seduto sullo scalino della porta, è immobile quando la gente gli sta intorno per compassionarlo, mentre le lamentatici si sciolgono i capelli e si graffiano il viso, quando la moglie è adagiata su un lenzuolo a terra, “con quel viso stupefatto e gli occhi gelati” - ancora un’immagine visuale, icastica -. Il movimento riprende nel paragrafo successivo: il pastore “scappa via per la montagna”. Ecco emergere ancora la caratteristica del poeta: si rifugia in un altro luogo, lontano dagli altri; significativo è anche il fatto che lo faccia “verso sera”: il buio favorisce la contemplazione, rende i contorni delle cose indefiniti e scatta l’immaginazione; a questo proposito Calvino riporta un pensiero del poeta Giacomo Leopardi: “È piacevolissima e sentimentalissima la stessa luce veduta nelle città, dov’ella è frastagliata dalle ombre, dove lo scuro contrasta in molti luoghi col chiaro, dove la luce in molte parti degrada appoco appoco, come sui tetti, dove alcuni luoghi riposti nascondono la vista dell’astro luminoso ec. ec. A questo piacere contribuisce la varietà, l’incertezza, il non veder tutto, e il potersi perciò spaziare coll’immaginazione, riguardo a ciò che non si vede” .
Alvaro scrive che il pastore si reca sulla montagna, “arriva lassù, al sommo della vallata”: lo stare in alto fisicamente simboleggia l’altezza dell’animo, la ricchezza di un dono che gli altri uomini non possiedono; il poeta è infatti colui che “esprime la parola che tutti avevano sulle labbra e che nessuno avrebbe detta” - è un pensiero del poeta Giovanni Pascoli -, esprime ciò che tutti sentono ma che solo lui è in grado di trasferire nelle parole.
Il pastore canta e suona con il suo strumento: è questa l’immagine del poeta, che riprende l’archetipo di Orfeo, il mitico poeta che con il suo canto soave e con il suono melodioso della sua cetra, riusciva ad ammansire le belve e a commuovere le pietre. Solo con la poesia, con il canto, il pastore-poeta riesce ad esprimere il sentimento prima bloccato nel suo cuore, quell’emozione che né gli amici né le lamentatrici erano riusciti a fargli manifestare: “A mano a mano che grida le parole che gli vengono in mente, e la zampogna si arrovella e gli geme il suo soffio sul viso, dalla cannuccia legata all’otre, lui piange a dirotto, e più piange quando il canto e il suono son pieni, che gli fanno sentire lo stupore d’esser vivo, d’esser lui, e tutti i suoi pensieri e i ricordi affiorano come rottami su un fiume, e gli fanno intendere, ora sì, d’essere solo”.
Nonostante il poeta sia in grado di pronunciare la parola per tutti, spesso non è compreso nella società in cui vive, viene frainteso: Alvaro inserisce nel racconto anche questo concetto, descrivendo come, in paese, ridano all’udire il suono di quella melodia, che sembra fuori luogo dato che non c’è nessuna festa.
L’articolo si conclude richiamando ancora la figura di Orfeo: come il mitico poeta riusciva a domare le fiere e a far commuovere i sassi, così al canto improvviso del pastore-poeta “sembra che i sassi della montagna si stacchino dalla cima rotolando giù come quando disgela e annunziano la primavera”.

L’articolo è costruito con periodi lunghi (ad esempio: “Tutti gli altri pastori che sono tornati dai monti, domani metteranno il vestito nuovo e andranno a messa, e all’uscita, dopo la campanella dell’adorazione, riempiranno delle loro voci la piazza, come un gregge che passa in una strada angusta”; “È passato il medico, ha detto alcune parole, ha lasciato un biglietto su cui è scritto il nome della medicina, e se n’è andato via con quella sua testa dritta nella quale deve esserci scritta la sentenza per la moglie del pastore”) ma anche corti (ad esempio: “Al mio paese è accaduto un fatto esemplare”; “All’indomani è domenica”; “eccoti il pastore che è rimasto come orbo”).
Il lessico è chiaro e non ambiguo; non sono presenti delle parole straniere e non ci sono scritte in corsivo dell’autore. Alvaro evidenzia degli oggetti tipici del sud: cala il lettore nell’umiltà del piccolo paese nominando “la cesta appesa all’architrave”, che contiene “il pane fatto a croce” e le “lamentatici”, che rendono anche visivamente la morte come tragedia.
Sono individuabili delle figure retoriche: frequente è l’utilizzo di paragoni (“come un gregge che passa in una strada angusta”; “eccoti il pastore che è rimasto come orbo”; “tutte quelle facce gli stanno attorno intirizzite come se pregustassero la loro ora”; “tutti i suoi pensieri e i ricordi affiorano come rottami su un fiume”; “come d’una follia”; “sembra che i sassi dalla montagna si stacchino dalla cima rotolando giù come quando disgela”). Nel testo possono essere osservati anche dei climax ascendenti: “Al mattino, al primo suono della campana, la moglie del pastore s’è voltata dall’altra parte del muro, ha cessato di lamentarsi, è spirata”; la donna compie diverse azioni prima di arrivare al culmine, alla morte: cambia posizione, poi rimane in silenzio e, infine, spira. “Non si muove, non piange neppure quando arriva la gente a compassionarlo […]; neppure quando arrivano le lamentatici che sciolgono i loro quattro capelli unti dalle treccie strette e si graffiano la faccia, e neppure quando stendono la moglie in terra, su un lenzuolo, e lui la vede, con quel viso stupefatto e gli occhi gelati”: sono tre momenti che aumentano sempre di più la tensione, che dovrebbero scuotere il pastore dalla sua immobilità.
Lo stile adottato dall’autore è personale: trasmette un’idea tramite un racconto; inoltre stabilisce un dialogo tra sé e il lettore, sono presenti in modo esplicito un “io” e un “tu”: “Al mio paese è accaduto un fatto esemplare”; “eccoti il pastore […]” e “Che ti fa il pastore?”.

3.5. La visibilità

Mentre scrive, il giornalista “vede” nella propria mente protagonisti e luoghi relativi alla notizia di cui si occupa: questi possono corrispondere alla realtà se egli ha assistito di persona all’avvenimento, se il fatto è già apparso in televisione, o sui giornali corredato da fotografie. Se però apprende l’evento da un’agenzia o da una qualsiasi altra fonte che non offra alcuna immagine, è nei suoi pensieri che si forma la rappresentazione visuale. Questo succede anche allo scrittore, che prova a dare forma all’ispirazione una volta che si è manifestata nella mente, e al lettore che con la fantasia può trasformare in figure dei segni che legge sulla carta.
Calvino scrive nel saggio sulla visibilità che oggi la facoltà di produrre immagini con la fantasia si è affievolita: nella “civiltà dell’immagine” si viene continuamente colpiti da immagini prefabbricate, così la mente si riempie di figure che sono uguali per tutti. “Quale sarà il futuro dell’immaginazione individuale in quella che si usa chiamare la ‘civiltà dell’immagine’? Il potere di evocare immagini in assenza continuerà a svilupparsi in un’umanità sempre più inondata dal diluvio delle immagini prefabbricate? Una volta la memoria visiva d’un individuo era limitata al patrimonio delle sue esperienze dirette e a un ridotto repertorio d’immagini riflesse dalla cultura […]. Oggi siamo bombardati da una tale quantità d’immagini da non saper più distinguere l’esperienza diretta da ciò che abbiamo visto per pochi secondi alla televisione. La memoria è ricoperta da strati di frantumi d’immagini come un deposito di spazzatura, dove è sempre più difficile che una figura tra le tante riesca ad acquistare rilievo” .
Corrado Alvaro viaggia sulla stessa lunghezza d’onda; si è già accennato alla sua ricorrente polemica contro le “arti meccaniche”: fanno parte di questa categoria il cinema, la fotografia, la radio e la televisione; per il sanluchese sono responsabili della falsa percezione del mondo da parte dell’uomo moderno. Scrive nel Nostro tempo e la speranza: “E quali sono i risultati di questo vedere. È un fatto nuovo dell’animo collettivo. Alla macchina fotografica è riserbata una grande parte dell’unificazione del costume […]. Nella tragedia, quasi mai la catastrofe accade sotto gli occhi degli spettatori, ma è raccontata da qualcuno. E da ciò il suo potere di suggestione, perché la realtà veduta è sempre al di sotto della realtà temuta, aspettata, creata parola per parola. L’ascoltatore o il lettore la immagina secondo le sue passioni, i suoi affetti […]. Pagine famose e articoli di giornale hanno suscitato grandi reazioni, movimenti di solidarietà, slanci collettivi. È che esse si affidano alla fantasia, lasciano al lettore il margine perché esso crei l’avvenimento col suo colore, la sua drammaticità, il suo significato” .
Meglio un medium che lasci spazio al lettore, alla sua fantasia, che offra a ciascuno la possibilità di dare vita alle immagini nella propria mente, rendendole uniche.
Calvino distingue due tipi di processi immaginativi : il primo è quello che parte dalla parola e arriva all’immagine visiva. È il caso della lettura: la storia, le parole, prendono vita nel pensiero diventando qualcosa che si può vedere. Si è già parlato di questo tipo di processo immaginativo riferendosi a Corrado Alvaro: i personaggi e i luoghi descritti negli articoli, e negli scritti in generale, hanno un tale potere evocativo che sembra di vederli; le donne che si fermano a guardare le vetrine dei negozi, il castello di Amleto, la signora turca addetta alle pulizie, il pastore-poeta: sono tutti elementi presenti nei testi analizzati in precedenza; se si rileggono le righe relative anche a uno solo di questi personaggi, ci si accorge come la figura prenda a poco a poco vita nei pensieri di ciascuno: “C’era nell’albergo una timida donna che veniva da fuori e faceva i servizi di pulizia. Vestita di nero, con un fazzoletto bianco sulla testa di cui stringeva le cocche fra i denti in modo che le coprisse la bocca e la metà inferiore del viso, si muoveva come in sogno, non parlava una parola che io capissi, e tuttavia qualche volta, ad occhi bassi voltata dall’altra parte, mi faceva qualche domanda”. Nella mente di ognuno si è formata un’immagine, in base alle parole appena lette; tuttavia la signora vestita di scuro non avrà per tutti lo stesso aspetto, anzi, è molto probabile che ciascun lettore si sia fatto un’idea diversa. È questa la forza della scrittura, capace di risvegliare la fantasia in ogni uomo.
Il secondo processo immaginativo è quello che parte dall’immagine visiva e arriva all’espressione verbale; quando si osserva un disegno o un quadro, l’idea nasce nella mente ancora più in fretta. È Calvino stesso a puntualizzarlo, ricordando un episodio della propria infanzia: bambino, sfogliava i fumetti americani tradotti in italiano sul Corriere dei piccoli . Non era ancora in grado di leggere e la storia nasceva nella sua mente: collegava le scene osservando i disegni, e lo faceva in modo del tutto personale. Imparato l’alfabeto, dopo qualche anno riprese quei giornali e scoprì che le frasi in fondo ai riquadri (non si usava ancora scrivere il testo dei fumetti dentro i baloon) erano banali e scontate: l’alfabeto non rappresentava alcun vantaggio; meglio la fantasia. È quando l’immagine ostacola la fantasia, che nasce il problema: “Nel cinema l’immagine che vediamo sullo schermo era passata anch’essa attraverso un testo scritto, poi era stata ‘vista’ mentalmente dal regista, poi ricostruita nella sua fisicità, sul set, per essere definitivamente fissata nei fotogrammi del film”. Una volta che l’immagine si cristallizza, la si può vedere realizzata sullo schermo, ed è la stessa, fisicamente, per chiunque la osservi. Corrado Alvaro preferisce il teatro al cinema: afferma che “il teatro è assai simile al giornalismo, immediato, tagliato sulla vita”, e colloca il cinema tra le “arti meccaniche”, ai suoi occhi negative, sostenendo che “il cinema è la scuola elementare della vita moderna”, in quanto sostituisce molte volte l’esperienza diretta del mondo.
Il sanluchese si è occupato spesso di cinema e di teatro: sono stati presi in considerazione degli articoli in cui egli, avendo come oggetto tali argomenti, espone la sua idea di visibilità.

Cinema, La Stampa, 11 maggio 1926
L’autore esordisce descrivendo un evento: l’arrivo a Roma di due divi hollywoodiani, Douglas Fairbanks e Mary Pickford. È interessante notare che al centro del discorso non si trova però il fatto in quanto tale, piuttosto il modo in cui l’avvenimento è vissuto dagli abitanti della città: dalla preparazione per accogliere i personaggi - grandi cartelli vengono appesi per tutte le strade e mille persone, alla stazione, aspettano l’arrivo degli attori -, si passa ai festeggiamenti organizzati in loro onore - uno spettacolo al quale i divi avrebbero assistito -. Con ironia Alvaro descrive la situazione: un evento mondano provoca a Roma un tale scompiglio come se in visita ci fossero stati due grandi uomini politici: “Douglas e la piccola Mary sorridevano attraverso gli sportelli dell’auto, sorridevano come Roosvelt e come Wilson. Da via Veneto a piazza in Lucina il traffico era quasi interrotto e la piazza era un mare di gente”.
L’autore si sofferma poi sulla sala in cui viene proiettato lo spettacolo: non descrive oggettivamente il luogo e le persone che lo riempiono, dicendo ad esempio che il tetto è costruito in modo da potersi aprire sul cielo e che la folla è molto numerosa; ma, sempre con ironia, legge e interpreta l’immagine che osserva, trasmettendola con la sua scrittura al lettore, il quale può a sua volta crearla a modo suo nella propria mente. È il primo processo immaginativo, quello che parte dalla parola e arriva all’immagine visuale, considerando il punto di vista del lettore: “Nella sala si soffocava. Sarebbe saltato il tetto come il tappo d’una bottiglia di spumante, se di quando in quando la cupola mobile, alle grida della folla asfissiata di profumi e di caldo, non si fosse aperta come il coperchio d’un sottomarino”. Analizzando invece il punto di vista dell’autore, si tratta del secondo processo immaginativo: quello che dall’immagine, in questo caso della realtà, porta alla lettura personale e, successivamente, alla scrittura, di ciò che si osserva.
Alvaro interpreta in modo soggettivo anche un’altra immagine: la folla all’interno della sala. Emerge in questo stesso paragrafo l’idea di visibilità del sanluchese: egli non lascia che la sua fantasia, la sua capacità di vedere nella mente, venga bloccata da una delle “arti meccaniche” come il cinema; il vero spettacolo non è quello che appare sullo schermo, uguale per chiunque lo guardi, ma ciò che accade intorno, che richiede la capacità di vedere al di fuori dell’immagine cristallizzata e di riuscire a trasmettere ad altri la propria visione: “È già uno spettacolo, nei cinematografi di Roma, l’entrata della folla ai posti di platea; irrompe gridando presa dall’ebbrezza del panico, terribile come può esser la folla quando è in tumulto. Immaginarsi una sala già così catastrofica nei giorni delle prime rappresentazioni, che cosa doveva essere quella sera”. Alvaro riprende quest’idea anche nel paragrafo successivo: Roma è talmente eccitata dalla presenza dei due divi che è come se non riuscisse a vedere altro; nei salotti non si appendono quadri che non siano ritratti di Douglas Fairbanks e di Mary Pickford; gruppi di curiosi invadono perennemente il marciapiede dell’albergo che ospita gli attori sperando di vederli o, meglio, di incontrarli; la gente scopre la presenza dei divi anche quando questi tentano di mimetizzarsi. A chi si lamenta perché trova il comportamento della città poco dignitoso, più adatto a una città di provincia che alla maestosa capitale, l’autore risponde: “E che cos’è una capitale se non l’essenza delle città di provincia?” Come se la capitale potenziasse pregi e difetti, racchiudendoli tutti in sé, delle città di provincia, rappresentandone l’essenza. Lo spettacolo è per Alvaro ciò che avviene a Roma: “E neppure era nuovo uno spettacolo come quello in Roma. Nel Trecento i poeti, nel Settecento le cantanti, nell’Ottocento le ballerine, ebbero la stessa accoglienza, suscitarono lo stesso disordine. L’arte del secolo è il cinema. Douglas trova a Roma quello che trovò il Petrarca in quella giornata in cui furon fatte tregue alle guerre perché egli s’incoronava Poeta”. “L’arte del secolo è il cinema”: è per questo che i divi hollywoodiani vengono trattati da eroi. L’autore precisa che non è solo in Italia che avviene questo fenomeno: il cinema, così come la nuova cultura di massa, arriva ovunque; questo concetto si è già incontrato analizzando l’articolo “Perfino le pastorelle del presepio oggi imitano le ‘pin-up girls’”: anche in un villaggio arriva “un’eco della trasformazione delle arti nella società urbana” e gli artigiani modificano secondo i nuovi gusti le statuette del presepe. L’articolo sulle pastorelle del presepe è del 1953, mentre quello sul cinema è del 1926: l’idea sulla cultura di massa rimane la stessa. La pervasività di questa nuova cultura è messa infatti già in risalto: non è solo a Roma che i famosi attori americani ricevono una tale accoglienza, ma anche in altri Paesi, come ad esempio in Francia: “Quando Charlot andò a Parigi, non esisteva più che Charlot. I mercati furono coperti di burattini, statuine, fotografie, giocattoli con le sembianze del celebre comico”. A Roma la maschera di Charlot ha preso il posto di quella di Pierrot: a poco a poco la nuova cultura cancellerà quella di ciascun popolo, eliminando ogni specificità; è ciò che accade anche guardando un’immagine sullo schermo: la fantasia di ciascuno tende a bloccarsi, perché tutto è già definito.
Alvaro evidenzia un contrasto: non tra Paesi, popoli, mentalità e abitudini diverse, proprio perché tutto si sta omologando, ma tra passato e presente. Il tempo trascorso coincide con i valori positivi, con la dignità, ed è contrapposto a quello attuale, in cui si perde la testa per le celebrità di Hollywood. Il senso di malinconia è attenuato grazie al sapiente uso dell’ironia: Alvaro racconta come, nemmeno per accogliere Giulio Cesare o Garibaldi, mai i romani abbiano abbandonato il proprio “temperamento solenne”; come mai? Perché non avevano di fronte attori di cinema: “‘Generale, qui Giulio Cesare era consigliere comunale’. Sì, sarà stato una specie di consigliere comunale, ma non era attore di cinematografo, ciò che vuol dire la ricchezza, la fortuna, la fama dall’America alla Cina con ali che nessuno le sognò mai”.
Se nel passato, uscendo dai salotti e dai caffè, l’uomo era stanco ma si sentiva pur sempre se stesso, dopo essere stato al cinema egli è come svuotato della sua essenza: alla stanchezza si unisce il senso di inquietudine e di annullamento; la macchina non è più il frutto dell’intelligenza umana, un prolungamento dell’essere umano, ma è l’individuo ad essere inglobato da questa: diviene un suo elemento, un oggetto. Sono queste frasi il fulcro di tutto l’articolo: “Come dai caffè e dai salotti, l’uomo ne esce a cuore vuoto, tolto il peso della vita, prostrato e conciliato col sonno. La macchina del cinema ha aggiunto, alla stanchezza delle serate dei caffè, il turbamento che essa porta con la sua velocità, quel senso di totale annullamento che dànno tutte le macchine […] come se l’individuo divenisse anch’esso un elemento della macchina […]. Qui gli individui sono elementi e strumenti, automi nelle mani di una volontà superiore, né attori né persone vive, ma oggetti”.
Emblema dell’individuo alienato è l’attore, che è parte del meccanismo: non è tra gli uomini che entrano e escono dal cinematografo, ma è addirittura dentro lo schermo; presta il suo corpo per contribuire a creare l’immagine cristallizzata che ostacola il processo immaginativo. “L’individuo esiste solo perché col suo aspetto ricorda la vita”, ma in realtà appartiene alla macchina che lo contiene, che lo proietta nelle sale, tanto che gli altri uomini non riescono più a vederlo che come tale: i giornalisti che intervistano Douglas non si soffermano sulle sue abitudini, sulla sua vita, ma puntano a soddisfare la curiosità di sapere come si realizza un film, quale sia l’atmosfera di Los Angeles, la retribuzione di un attore che lavora per realizzare un’opera di successo. Il comportamento dei giornalisti per Alvaro è spiegabile in questo modo: “Nessuno s’è mai sognato di domandare le sue abitudini a un orologio o a un’automobile”. Anche se l’attore di cinema ha ancora l’aspetto di un uomo, è l’essere un elemento di una macchina che lo caratterizza; così, porgli delle domande personali, sarebbe fuori luogo, tanto quanto lo sarebbe intervistare un orologio o un’automobile; questi sono puri oggetti e non hanno la capacità di riflettere: agiscono in quanto manovrati da alcuni dispositivi tecnici; così come gli individui al cinema divengono “elementi e strumenti, automi nelle mani di una volontà superiore”: chi blocca la fantasia con immagini prefabbricate.

L’articolo è costruito con periodi brevi (ad esempio: “Douglas e la piccola Mary sorridevano attraverso gli sportelli dell’auto, sorridevano come Roosvelt e come Wilson”; “immaginarsi una sala già così catastrofica nei giorni delle prime rappresentazioni, che cosa doveva essere quella sera”; “Ma il pubblico li scovò”; “L’arte del secolo è il cinema”; “Nessuno s’è mai sognato di domandare le sue abitudini a un orologio o a un’automobile”).
Il lessico è chiaro e non ambiguo; vengono nominati diversi personaggi: del cinema - sono i due divi hollywoodiani Douglas Fairbanks e Mary Pickford, e il celebre Charlot -, della politica - Roosvelt e Wilson -, della letteratura - Petrarca -, folkloristici - Pierrot -, storici - Garibaldi e Giulio Cesare -, proprietari di famose aziende - Gillette, fabbricante di lame -.
Si incontrano all’interno del testo delle parole straniere: i nomi di alcuni dei personaggi appena citati, quello di una città americana - Los Angeles - e il titolo di uno spettacolo francese - Turandot -; soltanto l’ultima parola menzionata è scritta in corsivo. Le parole “un’automobile” sono legate dall’ apostrofo: in origine il sostantivo “automobile” era maschile (in un futurista come Martinetti compare sempre senza apostrofo) e, ad un certo punto, diventa femminile; questo articolo testimonia che, nel 1926, la trasformazione è già avvenuta.
Numerosi sono i paragoni e le metafore, come: “sorridevano come Roosvelt e come Wilson”; “la piazza era un mare di gente”; “sarebbe saltato il tetto come il tappo d’una bottiglia di spumante, se di quando in quando la cupola mobile, alle grida della folla asfissiata di profumi e di caldo, non si fosse aperta come il coperchio d’un sottomarino”; “credo che milioni e milioni di uomini conoscano le fattezze del signor Gillette, fabbricante di lame, come conoscono quelle di Douglas o di Briand”; “Come dai caffè e dai salotti, [dal cinematografo] l’uomo ne esce a cuore vuoto, tolto il peso della vita, prostrato e conciliato col sonno”; “[…] quel senso di totale annullamento che danno tutte le macchine, quasi che corse in automobili e voli, come se l’individuo divenisse anch’esso un elemento della macchina”; “le sale di proiezione a Roma […] sono divenute vere e proprie grandi arene e piazze, architettate audacemente”. Frequenti sono anche le ripetizioni: la parola “Douglas” compare per nove volte; sei volte si legge “cinema” o “cinematografo/i”; per cinque il termine “folla”; la parola “spettacolo” si incontra invece quattro volte; i termini “caffè” e “salotti” si trovano scritti in due frasi di seguito. L’uso dell’ironia è ricorrente, eccetto che alla fine, quando le parole diventano la manifestazione di un’amara riflessione.
Lo stile adottato dall’autore è personale: Alvaro parte da un evento mondano e legge in modo soggettivo la situazione; si serve dell’avvenimento per esprimere la sua idea sul cinema.

Qualcuno ride, Il Mondo, 23 settembre 1950
Al cinema, come è già stato detto, Alvaro preferisce di gran lunga il teatro: “A teatro si sta seduti al buio per vedere meglio il giorno dopo, quando si affronterà la realtà”. Anche il teatro, come il cinema, è finzione, ma la sua è una “finzione che è madre di un futuro da mettere in moto concretamente nella vita reale […]. Per Alvaro il teatro è anzitutto un’arte del vedere? Ebbene, non gli sfugge niente della scena, sistema di segni dove nulla è casuale. Non lo è nemmeno la luce del riflettore che dà un particolare colore alla carne della danzatrice” .
Il teatro deve provocare nel pubblico una reazione, il suo compito è quello di renderlo attivo: Alvaro considera efficace un’opera teatrale quando riesce a realizzare questo. Apprezza molto una commedia francese di Jean de Letraz, dal titolo La sculacciata, perché contribuisce a creare l’immagine di un teatro vivo e attivo. Compara tale opera ad alcuni spettacoli di Roma cui ha assistito, che considera pregevoli ma che non suscitano alcuna reazione, anzi, provocano noia e, di conseguenza, anche il pubblico diventa noioso: “Gli attori erano vivi, di vena popolare; ma tutto si svolgeva in modo edificante, nella dialettalità più convenzionale e noiosa; il pubblico vi stava come a una funzione e senza una qualsiasi reazione. Era, anche il pubblico, noioso”. Come già osservato nell’analisi dell’articolo precedente, Alvaro non considera spettacolo solo ciò che si osserva sullo schermo o su un palcoscenico, ma anche quello che vi sta intorno: un’opera è riuscita non solo quando è ben scritta e ben interpretata, ma è fondamentale anche che il pubblico si senta coinvolto; la reazione del pubblico è un indicatore che consente di valutarne l’efficacia. Bisogna osservarla. La forza della commedia francese sta nel riuscire a far ridere chiunque le presti un minimo di attenzione, “perché una commediola simile, fatta col mestiere più trito ma pure con umore e indulgenza, dice qualche cosa della vita corrente e dei grossi problemi da cui siamo dominati”: è questo il teatro vivo e attivo, che Alvaro non riesce a trovare sempre a Roma; per questo nel titolo, è solo “qualcuno” che “ride”: torna il contrasto tra culture diverse, in questo caso la barriera è tra Italia e Francia; l’autore mostra agli italiani che non esiste solo un teatro edificante, convenzionale e noioso, ma che al contrario il più riuscito è quello in cui assistendovi si riesce a ridere, ci si può divertire: Jean de Letraz “rammenta che cosa può essere il teatro nella sua forma più quotidiana, più semplice e più efficace”.
Il teatro, come il cinema, è visibilità: è necessario vedere per poter fruire del prodotto, sia che gli artisti siano ripresi da una telecamera, sia che recitino su un palcoscenico. Interessante è notare che, in questo caso, la vista e l’immagine sono caratteristiche essenziali non solo a livello generale, perché di teatro si tratta, ma anche all’interno della storia che viene rappresentata: “Il simbolo della commedia è il sedere della signora Ermellina Pousset”, dunque un’immagine; “i francesi scherzano da secoli su queste cose”, tiene a puntualizzare Alvaro (l’articolo è stato scritto nel 1950). La commedia ruota tutta attorno a questa figura “che diventa volta a volta l’insegna”, come fosse una pubblicità, “della riscossa popolare e della difesa dei valori della civiltà occidentale”.
L’autore racconta in poche righe la trama della commedia: tutto comincia quando il marito della signora appena citata, il signor Luciano, uomo d’affari un po’ rozzo, infastidito dal comportamento di lei - lo irritano le sue “smanie nobili” -, “le alza la veste e la sculaccia”. La scena, però, avviene davanti alla finestra aperta e, un uomo che abita nella casa di fronte, un fotografo che si diletta spesso a immortalare la signora, riesce a catturare quell’immagine con il suo obiettivo. L’equivoco nasce perché il fotografo non sa che cosa effettivamente abbia fotografato: “il fotografo dilettante non è un maniaco indiscreto, ma un giovane miope che non vede e non distingue nulla, che fotografa tutto e dovunque, in modo da poter vedere poi, nella fotografia, quello che i suoi occhi non distinguono nella realtà”. Alvaro inserisce anche la fotografia tra le “arti meccaniche”, dunque la considera qualcosa di negativo: tutto ciò che si scatena e che, nello stesso tempo, consente però alla commedia di esistere, è la conseguenza di una foto. I dispositivi meccanici possono costituire un grande aiuto per l’uomo, perché potenziano le sue facoltà - è grazie alla fotografia che il giovane miope riesce a vedere gli oggetti -, ma sono anche causa di effetti negativi - il fotografo non sa quale immagine ha imprigionato nella pellicola e la fotografia provoca un enorme pasticcio -. Il giovane è perciò stupito quando il signor Pousset gli chiede di ritirare la pellicola, affidata nel frattempo a una ditta specializzata in sviluppo e stampa. Purtroppo per il signor Pousset, però, quel giorno gli operai della ditta scioperano e non consegnano il materiale. Trovandosi tra le mani una fotografia così insolita, gli scioperanti decidono di sfruttarla a loro vantaggio: ne diffondono diverse copie accompagnate dalla scritta “Il popolo punisce la reazione”; il signor Pousset è visibile nella foto e, così, diventa “il campione di questa riscossa proletaria”. Anche gli avversari del gruppo dei proletari, d’altro canto, vedendo che quell’immagine ha ottenuto un enorme successo, decidono di farne uso: a poco a poco, la fotografia con la vecchia scritta viene dimenticata perché sommersa da un’altra, affiancata da parole diverse: “L’ordine castiga l’anarchia”; “E il plebeo signor Pousset diventa di colpo il campione della difesa dei valori patriottici della civiltà, dell’ordine, l’idolo della società”. È il secondo processo immaginativo individuato da Calvino, quello che dall’immagine arriva all’espressione verbale: la fantasia consente di interpretare una rappresentazione grafica in tanti modi diversi; come il Calvino bambino non ancora in grado di leggere attribuiva ai disegni le frasi che gli suggeriva la sua immaginazione, così, i proletari da una parte e i reazionari dall’altra, leggono la fotografia a proprio piacimento, in un modo che sia vantaggioso per loro, che legittimi le loro idee e le loro azioni agli occhi degli altri.
Il pubblico si interessa alla commedia perché al centro c’è una problematica attuale: ci si trova investiti continuamente dalle diverse propagande; qui tutto è amplificato: una fotografia particolare e gli uomini stessi diventano strumenti di propaganda.

L’articolo è costruito con periodi medio-lunghi (come: “A questa commedia francese in cui l’autore gioca coi terrori e le paure diffusi da tutte le propagande, il pubblico era interessato perché lievemente interdetto di trovarsi squadernato un quesito che lo tiene in angustia tutti i giorni soltanto a dare un’occhiata a quello che vanno minacciando i manifesti di propaganda”; “Anzi, gli scioperanti, trovandosi tra le mani una fotografia così insolita, ne stampano qualche decina di copie che diffondono con la dicitura: ‘Il popolo punisce la reazione’”).
Il lessico è chiaro e non ambiguo: ci si appassiona alla commedia anche solo leggendo il testo di Alvaro, che ne parla; quasi tre righe sono occupate dall’elenco degli attori; le parole straniere sono boulevard, chic - in corsivo -, “Place de la Concorde”, “Cambronne” e il cognome dei due coniugi protagonisti: “Pousset”. In corsivo è scritto anche il titolo della commedia, La sculacciata.
Si incontra un paragone: “il pubblico vi stava come a una funzione e senza una qualsiasi reazione”. Frequente è l’accostamento di tre termini, sostantivi o aggettivi: “rammenta che cosa può essere il teatro nella sua forma più quotidiana, più semplice e più efficace”; “[…] una commediola simile, fatta col mestiere più trito ma pure con umore e indulgenza […]”; “senza impegno, ma col proposito di dire qualcosa di non inutile e risaputo e supinamente accettato”; “ma tutto si svolgeva in modo edificante, nella dialettalità più convenzionale e noiosa”; “la sua rozzezza che fino a ieri lo faceva ritenere impresentabile nel bel mondo, diventa il suo mondo, il suo chic, il suo fascino”.
Lo stile adottato da Alvaro è personale: la commedia che egli trova non solo pregevole ma, anche, piacevole, gli consente di trasmettere la sua personale idea di teatro, che deve essere vivo e attivo e che ha il compito di coinvolgere il pubblico provocando la sua reazione.

3.6. La molteplicità

Alvaro è in grado di passare da un tema all’altro: i suoi articoli spaziano dalla letteratura al cinema, dai reportage sulle città d’Oriente alla dura vita dei pastori e dei contadini calabresi, dal teatro alla condizione femminile. Scrive Walter Pedullà: “Anche Alvaro, come Savinio, fa sentire la sua voce sugli argomenti più diversi. Nello spazio si sposta dall’Europa (Germania, Russia, Scandinavia, Francia e, sconfinando Turchia, ‘viste cogli occhi’) a ogni aspetto dell’Italia, a partire dal Sud, o precisamente dalla Calabria, la natia Magna Grecia, il Mediterraneo, le radici più profonde, i miti che uno non riesce a levarsi dalla testa. Dall’alto in basso o viceversa dunque, ma spingendosi pure ai lati estremi del centro nazionale che tanto sta a cuore al soldato della prima guerra mondiale: ad Est, verso l’Unione Sovietica, di cui avverte il clima morale e i cataclismi repressi; ad Ovest, verso gli Stati Uniti, dei quali intuisce l’irresistibile potenziale e la prossima egemonia culturale, specialmente attraverso il cinema” . I testi sono poi infarciti di frasi che collegano l’argomento principale ad altri luoghi, lontani nel tempo e nella storia, ad altri personaggi, ad altri scritti; si è già avuto modo di considerare questo aspetto, nel corso delle precedenti analisi: il viaggio in Danimarca evoca la presenza di Shakespeare; dalla visita a Roma dei divi americani Douglas Fairbanks e Mary Pickford Alvaro approda a Petrarca, a Garibaldi e a Gillette; le passeggiate delle donne e il pastore-poeta che suona sulla montagna rimandano alla figura di Orfeo. E il Professor Rando ha messo in luce i numerosi collegamenti tra i pezzi giornalistici e i racconti di Alvaro. Se si immaginasse di vedere racchiusi tutti i suoi scritti in un’unica opera d’arte, questa potrebbe essere un quadro gigantesco e multicolore: dal centro si dipartirebbero tanti raggi che, presi singolarmente, basterebbero a riempire solo una parte della superficie della tela e mostrerebbero di volta in volta solo un aspetto del punto centrale; ammirando però l’opera complessiva ci si renderebbe conto della grandezza del dipinto e della moltitudine dei raggi che, uniti, formerebbero un grande sole. Solo così il punto centrale apparirebbe nella sua interezza. Fuori dalla tela, ci sarebbero però infiniti altri nodi - “Il ‘giornalismo’ di Alvaro è anche questo. Radici profonde e rami che si allargano in ogni direzione” - e, quello centrale appena considerato, non sarebbe più tale ma uno dei tanti. Bisognerebbe riuscire ad abbracciare l’intero mondo di Alvaro, tutti i suoi raggi, per poter arrivare a comprenderne l’essenza, a considerare il sanluchese in tutta la sua completezza, a vedere la totalità del nodo centrale che lo rappresenta. Sarebbe però un sogno utopico, come voler visitare tutti i nodi della grande rete di Internet: non si potrebbe mai raggiungere tutti i luoghi esistenti, perché i punti collegati sono infiniti e non esiste neanche un centro. Scrive Calvino a proposito di Carlo Emilio Gadda: “[…] ogni minimo oggetto è visto come il centro d’una rete di relazioni che lo scrittore non sa trattenersi dal seguire, moltiplicando i dettagli in modo che le sue descrizioni e divagazioni diventano infinite. Da qualsiasi punto di partenza il discorso s’allarga a comprendere orizzonti sempre più vasti, e se potesse continuare a svilupparsi in ogni direzione arriverebbe ad abbracciare l’intero universo” . Non esiste niente che possa contenere il mondo e nemmeno solo la vita di un singolo uomo. Proprio perché ogni punto si collega ad altri creando un percorso infinito. Il tutto è rappresentato dalle diverse relazioni. Ancora Calvino: “[…] Qualcuno potrà obiettare che più l’opera tende alla moltiplicazione dei possibili più s’allontana da quell’unicum che è il self di chi scrive, la sincerità interiore, la scoperta della propria verità. Al contrario, rispondo io, chi siamo noi, chi è ciascuno di noi se non una combinatoria d’esperienze, d’informazioni, di letture, d’immaginazioni? Ogni vita è un’enciclopedia, una biblioteca, un inventario di oggetti un campionario di stili, dove tutto può essere continuamente rimescolato e riordinato in tutti i modi possibili” .
Il giornalista è uno storico del presente: è come se ogni giorno volesse offrire ai suoi lettori, spettatori, ascoltatori, un concentrato di mondo. Anche lui però deve accontentarsi di mettere insieme solo alcuni frammenti: suo compito è quello di selezionare con cura le notizie seguendo i criteri di notiziabilità, i gusti del pubblico, la tipologia e l’orientamento del suo medium. Anche in questo caso, è solo una parte di mondo, un frammento di verità, quella che viene mostrata nel prodotto finale. Il giornalista è, poi, tanto più in gamba quanto più riesce a trasferire nel suo lavoro tutte le sue conoscenze ed esperienze, il bagaglio culturale e il vissuto; quanto più insomma è in grado di proiettare tutto se stesso nella professione. Questo principio vale non solo per il giornalista, ma per tutti. Dagli articoli di Alvaro traspare tutta la sua grande cultura e l’esperienza che accumula a poco a poco negli anni. Sono stati scelti da analizzare due suoi pezzi scritti nell’ultima parte della vita: “Documenti di vita” e “Pagine diverse”.

Documenti di vita, La Stampa, 19 novembre 1952
La molteplicità indica una moltitudine di relazioni, di collegamenti tra elementi diversi: è incarnata dalla rete e, parlando di rete, non si può non pensare a Internet. Il titolo dell’articolo è “Documenti di vita”: Internet è anche un infinito contenitore di documenti. Alvaro parte da una condizione che riscontra nel suo tempo e poi porta alcuni esempi: sono tutte esperienze di vita concatenate, che giungono alla mente dell’autore una dopo l’altra per associazioni, come i nodi di una grande rete.
L’incipit dell’articolo mostra l’influsso di Pirandello su Corrado Alvaro: l’autore ha l’impressione di trovarsi in un mondo finto, all’interno di una rappresentazione. Si sente egli stesso uno dei tanti personaggi che lo abitano. Uno dei tanti punti indipendenti ma collegati l’uno con l’altro. Ipotizza anche la possibilità di cambiare la propria identità: questo atteggiamento ricorda da vicino quello di un personaggio pirandelliano, Mattia Pascal, che cambia vita trasformandosi in Adriano Meis. Il cambiamento avviene perché il protagonista sceglie di sfruttare una situazione che gli si presenta: legge sul giornale un avvenimento che lo riguarda, la sua morte, e decide di cancellare Mattia Pascal e tutta la sua vita passata, per creare una nuova persona, con un nuovo aspetto e una nuova storia. Alvaro scrive lo stesso principio, utilizzando l’ironia: se si cercasse un espediente per mutare la propria condizione, non si riuscirebbe mai a cambiarla; bisogna aspettare che sia l’occasione a presentarsi. “Essere un’altra persona, dimenticare tutto quello per cui ho lavorato tutta la vita. Se io cercassi queste occasioni, sarebbe impossibile riuscirvi. Bisogna avere l’aria di essere bene attaccati a un mondo e a una vita per andare incontro a tentazioni simili […]. Se andassi a cercare un posto di lavoro oltre lo stecconato d’una fabbrica, sarei respinto”. La società è cambiata: torna ancora una volta la polemica di Alvaro nei confronti della modernità; il primo nodo a collegarsi alla sua constatazione, il primo documento, è l’esempio di un artista: formatosi nel modo tradizionale fatica ad emergere ma, basta che impieghi una minima parte delle sue capacità in una diversa attività, per avere successo; sembra un paradosso, eppure è quello che Alvaro ha visto accadere quando uno scrittore di tragedie intraprende la conduzione di una campagna di pubblicità o di propaganda. Da questa esperienza, subito Alvaro si collega ad un altro episodio: “Un fatto mi fece riflettere su queste cose”. Gli viene in mente un suo vecchio amico, un uomo anziano molto colto; considera preziosa la sua amicizia perché “è uno di quegli incantevoli libri aperti che sono a volte gli uomini, accanto ai quali si ha l’impressione di capire improvvisamente tutto, di scorgere gli aspetti della vita passata, di distinguere vicini e familiari i personaggi della Storia”. Si parlava dell’impossibilità di racchiudere tutto in uno spazio definito, dei raggi molteplici che si dipartono da ogni essere umano come da un punto centrale, e che potrebbero collegarsi l’un l’altro raggiungendo tutti i nodi possibili; ebbene, è questa la ricchezza della persona descritta da Alvaro: stargli vicino rappresenta l’opportunità di fare esperienza di tutto, di abbracciare il passato e di incontrare i personaggi della Storia. Nella vita, quest’uomo recita la parte del vecchio saggio - ecco che riemerge l’influsso di Pirandello - e, quando gli viene proposto di recitare in un film, viene scartato al provino, perché il personaggio che deve interpretare è troppo diverso da sé, “non è la parte che egli fa nella società, bensì un’altra, la parte del vecchio naufrago della vita […] se non lo presero fu perché apparve troppo nobile, troppo fine, un intellettuale; non decaduto”. Questo racconto fa scattare nel pensiero di Alvaro un’altra molla, quella che conduce alla riflessione, non senza ironia, del tempo presente: chi ha offerto la parte al suo amico e poi l’ha scartato, non è un volgare affarista ma una persona buona, “perché il nostro duro tempo ha tra le professioni più remunerative quella di buono; essendovi molte sofferenze nel mondo, anche queste hanno i loro impresari come qualunque altra attività e merce”. In più, Alvaro si stupisce che sia stata proposta all’anziano una simile offerta, come se fosse naturale abbandonare la propria parte nella società per interpretarne una diversa in un film. Il punto è, e qui inizia una nuova considerazione, che nasce dalla riflessione precedente, che “I nostri sono anni di documenti, in cui ci documentiamo su tutto, e a tale punto che va scomparendo rapidamente ogni forma di giudizio sul documento che ci viene offerto”. Alvaro scrive l’articolo nel 1952, e c’era già in germe la caratteristica dell’uomo di oggi: accumulare dati su dati, documenti su documenti, senza riuscire a soffermarsi bene su ciascuno, senza poter valutare adeguatamente tutto ciò che scorre davanti agli occhi. È ciò che Bauman intende parlando di “Modernità liquida” : è come la corrente di un fiume che trascina impetuosa ciò che contiene impedendo di raccogliere poco per volta i singoli oggetti; e la massa di documenti che porta con sé è enorme: così si vede tutto ma non si scava in profondità su niente, non si può che restare in superficie. Questa riflessione conduce ad un altro punto: ad Alvaro viene in mente che, sempre di più, compare la tendenza a non considerare l’essenza delle cose ma l’apparenza; che di una persona si punta a vedere com’è, piuttosto che a sapere chi è e cosa fa; a sostegno di questa idea, racconta un aneddoto che mostra come egli abbia sperimentato il fenomeno di persona: “Quando vedo fotografie di grossi personaggi che si incontrano, che si stringono la mano, che stanno discutendo i destini del mondo, non sono i protagonisti a interessarmi, ma quelle figure in genere sorridenti nel vuoto e che non si sa mai chi siano […] l’umanità in ogni suo singolo individuo ha finito con l’essere dominata da una aspirazione: essere o apparire qualcuno”. Ecco che allora nella sua testa si formano altri collegamenti, con altri nodi che rappresentano, ognuno, un’esperienza vissuta: siccome è importante apparire, tante persone si spacciano per qualcun’ altro, “per individui che hanno un certo nome”; e questo semplicemente per interpretare una parte diversa, dato che la propria evidentemente non le soddisfa - torna l’influsso di Pirandello -. Per esempio, Alvaro racconta di conoscere un certo G. A., trasferitosi a Londra da diversi anni, e di aver parlato di recente con una persona, convinta di aver incontrato G. A. a Roma e di essersi intrattenuta con lui. Alvaro commenta: “È un falso G. A., come ho potuto desumere dalle informazioni inesatte che egli ha dato sul suo personaggio, dalla descrizione che mi è stata fatta; il vero G. A. è molto meno giovane, e non è così accessibile da farsi invitare a pranzo da uno sconosciuto, una sera a Roma”.
L’autore si concentra poi su un altro episodio, utilizzando ancora una volta l’ironia: racconta di come un tale si sia spacciato per un suo caro amico, B., per riuscire a parlare con una donna sul tramvai intenta nella lettura di un libro. Siccome B. è un grande uomo di cultura, questo signore spera di conquistare la lettrice fingendo di essere lui, “che certo a quell’ora stava a casa sua tra i suoi libri e le sue carte”. Alvaro cerca di spiegare a se stesso il motivo di questi comportamenti; alla fine, li giustifica in questo modo: “Tanto G. A. quanto B. sono uomini che hanno una rinomanza nel mondo della cultura; come succede, più che le loro opere, è noto il loro nome; il nome, questa forza magica del mondo moderno”. Il sanluchese si allaccia poi, da questo discorso, a considerazioni sulla cultura: dato che c’è chi fa finta di essere un intellettuale perché crede di apparire migliore, il prestigio della cultura non è scomparso. Con la cultura ci si può differenziare, si può “assumere una individualità nello schiacciamento e livellamento della società moderna”. Calvino scrive che è possibile per la letteratura distinguersi dalla cultura di oggi perché, in un mondo nel quale ogni sapere è ormai settorializzato e specifico, essa è ancora capace di dedicarsi a tutto, ed è questo che la salva: “Da quando la scienza diffida dalle spiegazioni generali e dalle soluzioni che non siano settoriali e specialistiche, la grande sfida per la letteratura è il saper tessere insieme i diversi saperi e i diversi codici in una visione plurima, sfaccettata del mondo” .
Il fatto curioso è che non si cerchi di assumere “una individualità fuori della regola, bensì conformista e accettabile”; e che il conformismo sia presente in ogni parte del mondo, “non ha una patria”, e si eserciti proprio su ciò che prima sarebbe stato considerato irregolare: “è l’ermetico e non l’accessibile, l’astratto e non il concreto, il difficile e non il facile, l’oscuro e non il decifrabile”. La volontà di distinguersi per essere ricordati, per non passare inosservati, per non essere un elemento tra tanti: è questo aspetto ciò che Alvaro legge dietro l’opposizione di ognuno al livellamento imposto dalla società. Oggi si sperimentano dei sofisticati dispositivi per “copiare” il proprio cervello su un computer: è un tentativo di sconfiggere la morte, perché quando ogni neurone si troverà copiato sulla macchina, collegato a tutti gli altri, la mente sopravviverà anche dopo la scomparsa del corpo . Alvaro scorge questa tendenza già nella società del suo tempo, e la contrappone a quella passata: “Sarà l’insicurezza d’una tradizione collettiva e familiare, la sfiducia nel ricordo che i più vicini possono serbare di noi, a spingerci a lasciare di noi un documento più o meno tenace e a manifestare tutto di noi: che almeno qualcuno lo veda, lo ricordi, lo sappia. Che una donna bella sia bella per tutti e non soltanto per chi l’ama, e mostri la sua immagine non composta, non formale, non da società, come le belle dei vecchi tempi, quelle che morivano col loro segreto, è il fenomeno più comune, ed è tipico del nostro tempo”.
L’ultimo nodo che Alvaro tocca nel suo articolo è rappresentato da un altro episodio: racconta di quando una donna, moglie di un suo conoscente, si sia recata da lui per ottenere un consiglio. Anche a questa signora, come all’anziano presentato all’inizio, è stato proposto di interpretare una parte in un film. La donna non riesce a decidere da sola se accettare o meno l’offerta, quindi chiede l’aiuto di Alvaro. Entrare in un altro mondo, quello del cinema, l’avrebbe costretta ad abbandonare la parte di se stessa anche nel mondo reale: la sua vita sarebbe cambiata, la sua condizione di moglie e di madre. Alvaro non le consiglia nulla, semplicemente ipotizza cosa avrebbe significato quel mutamento radicale della sua esistenza, non solo per lei ma anche per gli altri familiari, il figlio e il marito. “Doveva accettare? Fra poco l’immagine di quella donna saremmo stati in pochi a ricordarla, quella grazia e armonia, quella serenità quasi assurda nella fiducia di essere amata, sarebbero durate solo una breve stagione. Ed era il più grande dono che si possa fare a un uomo”. La signora decide di non cambiare vita, di dedicarsi solo al lavoro di madre e di moglie. Tuttavia, Alvaro viene a sapere che “il dramma […] prospettato, si era [poi] verificato lo stesso”, in quanto il marito la abbandona per un’altra donna. Si conclude così l’articolo: “E io sono rimasto col dubbio di non capire abbastanza l’enorme fenomeno di questo tempo che investe l’individuo e i suoi rapporti e i suoi legami”. È un fenomeno talmente grande che è impossibile considerarlo in tutta la sua interezza e complessità, è come una rete infinita. E i rapporti e i legami che gli individui stringono con cose e persone ricordano quelli tra i nodi della stessa, immensa, rete.

L’articolo è costruito con frasi brevi, ad esempio: “Sono anch’io un personaggio fittizio, e non so neppure io che cosa rappresenti”; “È un segno dei tempi”; “Un fatto mi fece riflettere su queste cose”; “Lo capisco, sono vecchi concetti di vita che la realtà tutti i giorni annulla e dimostra vani”; “Criminale, apostolo, vittima, non importa”; “il nome, questa forza magica del mondo moderno”; “La cultura può essere in declino, ma il suo prestigio è ancora grande”; “Ed era il più grande dono che si possa fare a un uomo”; ma anche lunghe, come: “Ma basta che egli esca un poco da quel concetto, da quelle idee, che adoperi la centesima parte dell’energia che gli occorre in questa funzione, che per esempio impieghi gusto, attenzione, invenzione non a scrivere tragedie, ma a condurre una campagna di pubblicità o di propaganda per vedersi ricco”; “Sarà l’insicurezza d’una tradizione collettiva e familiare, la sfiducia nel ricordo che i più vicini possono serbare di noi, a spingerci a lasciare un documento più o meno tenace e a manifestare tutto di noi: che almeno qualcuno lo veda, lo ricordi, lo sappia”.
Il lessico è chiaro e non ambiguo, anche se i primi paragrafi non sono di immediata comprensione. Non sono presenti parole straniere. Dei personaggi citati compaiono solo le iniziali: G. A. e B.
Non vi sono all’interno dell’articolo nè paragoni, nè metafore. Si è già fatto riferimento nel corso dell’analisi all’uso dell’ironia. Ricorrente è la figura retorica del climax; alcuni esempi: “Ma avrei avuto molte volte l’occasione di cambiare mestiere, attività, tutto” è un climax ascendente, perché si parte dal particolare - il mestiere -, si allarga poi il campo - l’attività -, per approdare infine a “tutto”; anche “[…] si sono create nuove attitudini, nuovi mestieri e nuove arti” è un climax ascendente, in quanto Alvaro segue un’evoluzione progressiva: dal semplice talento in germe, l’attitudine, si arriva all’arte, che perfeziona il mestiere; “[…] accanto ai quali si ha l’impressione di capire improvvisamente tutto, di scorgere gli aspetti della vita passata, di distinguere vicini e familiari i personaggi della Storia” rappresenta invece un climax discendente, poiché dal generale si passa al particolare; “Quando vedo fotografie di grossi personaggi che si incontrano, che si stringono la mano, che stanno discutendo i destini del mondo […]” è un climax ascendente, perché le azioni descritte sono sempre più significative. Anche “Criminale, apostolo, vittima” è un climax ascendente; “Non credo che sia nel proposito di nessuno di stupidire con questi mezzi, di avvilire la cultura e di intorpidire i pensieri”, rappresenta ancora un climax ascendente: il primo elemento è il semplice intontimento, il secondo è l’avvilimento della cultura e il terzo, il più grave per l’uomo, l’attacco al pensiero. Infine, anche le domande di Alvaro alla donna sono scritte formando un climax ascendente: è l’autore stesso a scrivere, a proposito dell’ultima domanda, “e questa mi pareva una domanda forse la più importante”.
Lo stile adottato dall’autore è personale: i “documenti” da mostrare ai lettori sono pescati dalla sua esperienza e gli aneddoti assumono sempre la forma del racconto.

Pagine diverse, Corriere della sera, 14 gennaio 1956
Ognuno associa naturalmente un’idea a un’altra e lega delle parole perché la loro pronuncia serve a comunicare con gli altri, dà vita ad un suono familiare o, semplicemente, piacevole. I bambini che apprendono un linguaggio mettono insieme delle sillabe nella propria testa perché ne ricordano i suoni; il significato da attribuire alle parole entra in gioco solo più tardi. Spesso gli adulti non riflettono su questo aspetto e, così, non ci si spiega il fenomeno di Minou, la bambina in grado di scrivere versi come un adulto, con una lingua permeata del gusto moderno. Alvaro considera i bambini musicisti prodigio: non è un caso che la loro genialità si manifesti nel campo musicale, in cui “la parola è legata alla musica”. Per capire questo concetto basta “ricordare la propria infanzia, quando delle parole udite spesso non si conosceva il senso, eppure capitava di adoperarle esattamente o in una poetica associazione di idee. Si direbbe che il ragazzo sia guidato piuttosto dal suono della parola, dalla sua musicalità. Ricordando gli arcani significati che ognuno di noi ha dato alle parole del nostro primo linguaggio, possiamo renderci conto del potere di cui è carico il verbo nell’infanzia”. Questa riflessione conduce ad un’associazione nella mente dell’autore: come nell’articolo analizzato in precedenza, è come se diversi nodi fossero collegati l’uno con l’altro e “attivati” man mano che il giornalista li evoca sulla pagina. A sostegno della sua ipotesi, porta un esempio: il comportamento di un bambino che completa la parola “lavorare” con “la terra”; questi suoni sono per lui naturalmente consequenziali e probabilmente non ha idea di cosa vogliano dire, avendo solo due anni e mezzo. Se nell’articolo precedente Alvaro scriveva: “il nome, questa forza magica del mondo moderno”, qui riprende la stessa idea: “Ora, il nostro tempo è dominato dalle parole”. È il puro suono, la superficialità, ad essere cercato e, se gli adulti non se ne rendono conto, basta osservare il comportamento dei bambini, di Minou, che assorbono “la corrente continua di parole, in cui i modi della letteratura passano nel linguaggio comune, attraverso la radio o il cinema, e perfino nella pubblicità commerciale, in cui accade di leggere la raccomandazione d’un prodotto sul ritmo delle poesie che si leggono a centinaia, e che spesso presentano l’incoerenza della fantasticheria infantile tutta verbale, e tutta nell’aggruppamento dei suoni, o nel prestigio del puro suono della parola”. Alvaro spiega così il prodigio di Minou, che riesce a produrre versi come fosse un adulto: in realtà cattura dei suoni e li fissa sul foglio. La bambina Minou è come i disegnatori bambini: “entrano in una letteratura e pittura senza storia, ferme al loro momento di emozione e di semplice suggestione del suono, o del ghirigoro sulla carta”. Se a proposito dell’articolo precedente si individuava l’influsso di Pirandello, tra queste righe compare la concezione propria di D’Annunzio: la parola è puro suono, “il verso è tutto” .
I punti successivi che Alvaro decide di trattare nell’articolo sono isolati anche graficamente tra di loro e dal resto del testo: sono libere associazioni; ogni nodo è una “pagina diversa”, il titolo dell’intero pezzo è “Pagine diverse”. Finora, si è visto come Alvaro utilizzi quasi sempre la tecnica di partire da un avvenimento particolare per poi collegarsi ad altri aspetti, ad altri nodi; tuttavia, sempre si poteva seguire un filo conduttore: l’argomento principale è sempre stato chiaro, racchiuso nel titolo e/o sviluppato nel corso del testo (“Cinema”, “Colore di Copenaghen”, “Le donne di Roma”, “Letteratura”…). Quando si legge questo articolo, non solo non c’è un oggetto ben definito da considerare, ma c’è perfino uno spazio tra tanti paragrafi che trattano di temi differenti, che sembrano non avere nulla in comune. Tra il primo paragrafo in cui si parla della vicenda di Minou e il secondo, l’unico elemento che riappare, e che quindi crea il collegamento, è la parola “pubblicità”; il verseggiare della bambina è dovuto anche al linguaggio della pubblicità, che i piccoli si trovano spesso ad ascoltare; la parola fa riecheggiare nella testa dell’autore la frase pronunciata da una donna, che considera “rara” perché, nonostante viva nell’epoca della “caccia […] alla pubblicità”, respinge le attenzioni di un uomo “di una certa fama” - e non è poco, considerando che “il nome è la forza magica del mondo moderno” -: “Non mi metto mai con personaggi conosciuti. C’è il rischio di finire sui giornali. Scelgo piuttosto gli angolini nascosti, intimi, gli uomini oscuri”.
Il parlare di “fama”, che si contrappone all’intimità di una vita tranquilla, ricorda ad Alvaro il “rumore” del traffico di Roma. Immagina che gli automobilisti indisciplinati siano come scolari che approfittano del momento in cui il maestro non ha lo sguardo rivolto verso di loro. È un atteggiamento che dalla scuola si riversa poi nella vita sociale. “Per la gente più superficiale, libertà significa confusione e chiasso. E perciò molti invocano il professore pignolo e cattivo anche nella vita sociale”.
La considerazione precedente accende poi un’altra lampadina: la parola che dal terzo conduce al quarto paragrafo è “Roma”; anche se la sua bellezza cambia negli anni, muta con il passare delle stagioni, il suo valore intrinseco è sempre uguale, in “quella struttura storica che nulla può aumentare, essendo il suo significato concluso in un valore che non è più del nostro tempo se non come eredità e norma”. L’essenza della città è nascosta dai rumori, dai cambiamenti architettonici, dalle novità; ma ci sono dei momenti in cui Roma riappare quella che è sempre stata, “per chiunque la vide per molti secoli: la domenica, i giorni delle grandi feste annuali, e certe ore della notte, fra le due e le quattro, quando tace l’ultimo motore, la valle in cui giace la città si colma di silenzio, nell’alone delle luci notturne si scoprono le sommità che incorniciano gli edifici […]”. In “Cinema”, Alvaro aveva scritto: “E che cos’è una capitale se non l’essenza delle città di provincia?” Tutto in essa si dilata, gli aspetti positivi ma anche negativi del resto del Paese; a lei i cittadini imputano i propri mali e difetti. Eppure, le si potrebbe perdonare tutto solo scoprendo e lasciandosi attraversare dalla luce che emana, che non si dimentica mai una volta percepita, che ha il potere di penetrare nella memoria e nel cuore per sempre: “Ma v’è un elemento che nessuno può distruggere a Roma, ed è la sua luce, quella luce d’argento che pare tramandata da un tempo distillato e che si ricorderà sempre, appena se ne sarà lontani […]. Non si dirà mai tanto male di Roma da scalfire la sua pelle di bronzo. Né con l’efficacia con cui è stato detto tra le sue stesse mura”.
Il ricordo e il passato di Roma che riecheggiano anche nell’epoca presente, portano Alvaro a raccontare un aneddoto sull’“arte antica”: i mercanti sono costretti a fabbricare opere false per gli americani che richiedono pezzi giganteschi da poter collocare nei propri musei. Il motivo è che “l’arte antica ha offerto immagini di grandi proporzioni di rado, e non sempre nei tempi più splendidi”; e, soprattutto, che “la grandezza antica consisteva piuttosto nella misura e nei rapporti”. Torna ancora una volta la diversità tra due culture, tra due popoli lontani; gli italiani e gli americani si differenziano perché gli uni seguono la misura, gli altri la grandezza spropositata.
È la parola “arte” che conduce all’ultimo nodo cui Corrado Alvaro approda. Celebra l’incompiutezza, l’opera d’arte non finita, perché questo stato invita all’interpretazione e provoca suggestione; spinge all’immaginazione. Calvino apprezza Leopardi proprio perché esprime la stessa idea, e cita alcuni brani dello Zibaldone nel saggio dedicato all’esattezza: “[piacevole è osservare] tutti quegli oggetti […] che per diverse materiali e menome circostanze giungono alla nostra vista, udito ec. in modo incerto, mal distinto, imperfetto, incompleto, o fuor dell’ordinario ec.”
Un’opera non potrà mai abbracciare il tutto e, paradossalmente, l’artista crea di più quando lascia al lettore, allo spettatore, all’ascoltatore, il compito del completamento. “Un’opera compiuta, di qualunque ordine e di qualunque grandezza, è una limitazione dell’autore, cioè ne stabilisce i confini e le possibilità”; mentre l’opera incompiuta lascia la possibilità di ampliarla fino all’infinito.


L’articolo è costruito utilizzando periodi medio-lunghi e lunghi (come: “I bambini musicisti prodigio sono il fenomeno di un’epoca in cui la musica diventa l’arte dominante, quella in cui la società si riconosce meglio”; “Conosco un bambino di due anni e mezzo il quale, quando sente pronunziare la parola ‘lavorare’, crede di completarla dicendo ‘lavorare la terra’”; “Si sarà notato come la pubblicità, che un tempo si faceva in versi rimati, ora abbia adottato la forma della prosa ritmica, più o meno coscientemente”; “Le aggiunte, se mai, possono avvenire in un altro ordine, cioè nell’ordine della civiltà nuova che viviamo, e quindi fuori di quella struttura storica che più nulla può aumentare, essendo il suo significato concluso in un valore che non è più del nostro tempo se non come eredità e norma”; “Le capitali sono fatte anche per questo, perché i cittadini della nazione intera le addossino i loro stessi mali e difetti e le loro colpe, che qualunque altra città o paese respingerebbero con ordini del giorno di protesta e dimostrazioni”; “Lasciano immaginare chissà quali stupendi svolgimenti, solo che l’autore o l’individuo avesse potuto compiere la sua opera, o la sua vita”.).
Il lessico è chiaro e non ambiguo, anche se vengono usate delle parole non più di uso comune, come ad esempio buriana; inoltre, oggi si preferisce scrivere “pronunciare” invece di “pronunziare” e “obiettivo” invece di “obbiettivo”. È presente, tra virgolette, il nome di una rivista: “Paragone”.
Si possono leggere all’interno dell’articolo numerosi paragoni e metafore: “[…]che la disciplina della vita sociale appaia ad essi come la continuazione della costrizione e della disciplina scolastiche”; “il traffico coi mezzi moderni ha invaso la strada e resi ancora più remoti i monumenti che sono di qua e di là, come su un’altra riva”; “Si torna nel vortice della città come da un viaggio”; “Il ricordo di essa, come un obbiettivo fotografico rimasto aperto nella nostra memoria […]”; “Non si dirà mai tanto male di Roma da scalfire la sua pelle di bronzo”; “per quanto sublime, contiene sempre quel tanto di detriti che appartengono all’opera d’arte, come il carbone e la cenere appartengono al fuoco”; “[…] oggi gli scultori presentano opere mutile o acefale come quelle che vengono fuori dagli scavi”.
È già stata fatta notare la caratteristica grafica del pezzo: i diversi paragrafi, che corrispondono alle “pagine diverse”, sono separati da uno spazio bianco.
Anche in quest’ultimo articolo, si può apprezzare lo stile personale di Alvaro: le “pagine diverse” non sono altro che i collegamenti che nascono nella sua mente, quindi soggettivi, tra i vari nodi, e che scrive per i lettori.

Quest’ultima parte di analisi è dedicata alla molteplicità; si è già parlato a sufficienza dei numerosi collegamenti che Alvaro evidenzia nei suoi articoli, come se volesse arrivare a toccare ogni punto dell’universo. A questo proposito, si potrebbe raccontare un simpatico aneddoto: “Debenedetti, recensendo su L’Unità un’opera del narratore calabrese disse suppergiù che Alvaro tentava di abbracciare con la sua opera tutto il mondo, ma era come se avesse le braccia troppo corte. Il bello è che il ‘difetto’ c’era realmente, ‘fisicamente’, cioè le braccia di Alvaro non erano abbastanza lunghe, ma Debenedetti, che non conosceva di persona lo scrittore, per indicare un limite si era servito di una metafora. Innocente ma non innocua, se fu letta come un’insistenza maligna su una ‘deformazione’ dall’interessato, che se ne risentì” .


4. L’INTERVISTA

4.1. Colloquio con il Dottor Franco Abruzzo

È riportato di seguito il testo dell’intervista al Dott. Franco Abruzzo, Presidente dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia nonché giornalista calabrese. I temi sono la figura di Corrado Alvaro e alcune idee espresse da Italo Calvino nelle Lezioni americane, tagliati trasversalmente da considerazioni sulla professione giornalistica. L’intervista è stata realizzata il 16 maggio 2005.
È stato necessario modificare a volte la costruzione delle frasi, per adattarle al linguaggio scritto. Il senso delle parole è comunque rimasto inalterato.

Il titolo della mia tesi è Corrado Alvaro giornalista. Una rilettura alla luce delle “Lezioni americane” di Italo Calvino. Ho affiancato due personaggi: cosa ne pensa, dato che anche lei ha accostato, nella sua tesi di laurea, due situazioni (le condizioni dei contadini calabresi e di quelli algerini)?

È una realtà diversa. Tutto nasceva dalla lettura di alcuni articoli che riguardavano la guerra d’Algeria, pubblicati sulle pagine del Giorno. La guerra era scoppiata l’1 novembre 1954 e il Giorno era stato fondato il 21 aprile 1956. Ero rimasto colpito dal comportamento dei contadini: avevano partecipato attivamente - c’è un bellissimo articolo di Italo Pietra - agli scontri. Potevano scegliere tra quattro destini: o rimanere sottomessi, schiavi, ai nuovi padroni francesi nella terra dei loro padri, o andare a “vendere frittelle” ad Algeri, o emigrare in Francia; oppure, e questa è la quarta via, c’era il combattimento per restare liberi nella loro Patria. Optarono per quest’ultima alternativa.
La mia tesi di laurea verteva sull’opera di Giustino Fortunato e una professoressa della commissione mi chiese come mai avessi affiancato due realtà tanto diverse come la guerra d’Algeria e la situazione del sud Italia. Io risposi che trovavo strano il destino dei contadini del Mezzogiorno, che non avevano partecipato al Risorgimento nazionale in quanto fedeli alla volontà della Chiesa, contraria all’unità nazionale italiana, se confrontato con quello dei contadini algerini. Mi avevano colpito le reazioni opposte, il fatto che i contadini calabresi e siciliani, contrariamente agli altri, non avessero partecipato alla guerra di liberazione nazionale, alle guerre che hanno fatto l’Italia unita (parlo delle prime guerre), reagendo prima con il brigantaggio e poi con l’emigrazione.
È strano il diverso destino di contadini che si affacciano tutti sullo stesso mare; a distanza di cento anni, si sono contrapposti la passività dei contadini del Mezzogiorno che non hanno partecipato alla guerra, e l’attivismo eroico dei contadini algerini che hanno combattuto per la loro terra.
Questo è il motivo per cui ho accostato le due realtà.
Ho letto molte opere di Calvino, così come ho apprezzato Gente in Aspromonte di Alvaro. Corrado Alvaro è stato un grande giornalista; era un calabrese come quei calabresi che lui ha descritto nel suo romanzo, cioè “o di qua o di là”, non c’è la via di mezzo, non c’è il Purgatorio, non c’è il compromesso; era fatto così, proprio come il calabrese descritto in Gente in Aspromonte che non conosce compromessi: o sta con la legge o è contro la legge.

Corrado Alvaro è uno dei più grandi scrittori del Novecento oltre che un eccellente giornalista. Come mai, secondo lei, è poco conosciuto?

Se si chiede per esempio a dei giovani giornalisti del Corriere della sera chi sono Fraccaroli, un grande inviato, Barzini, Balzani, il giornalista e amministratore del Corriere, che con Albertini ha reso grande il Corriere, ci si accorge che sanno poco di loro. Io mi sto ribellando a questa perdita della memoria, usando i mezzi che ho a disposizione: sul sito dell’Ordine dei giornalisti si trova una sezione intitolata “I nostri martiri”, che celebra giornalisti come Amendola, Gobetti, Tobagi; sono stato relatore di una tesi, che è diventata poi un libro, sulla storia del sindacato dei giornalisti - il periodo storico considerato è quello da Francesco De Sanctis a Walter Tobagi, sono raccontati 103 anni di storia -; è stato recuperato un libro di Mario Borsa, Libertà di stampa, con il saggio di Tobagi su di lui.
Tra i giovani c’è una perdita di memoria e io, come presidente dell’Ordine dei giornalisti, utilizzo anche Tabloid, il giornale dell’Ordine, come strumento per rimediare a tale perdita; si può leggere anche su Internet: si entra nel sito e, all’interno della voce “documenti” si trovano 104 sezioni con tutte le pubblicazioni dal 1986 al 2005, suddivise per annate - dal 1986 al 1990, dal 1991 al 1995, dal 1996 al 2000 e dal 2001 al 2005 -. Se in ogni sezione si cercano i personaggi, ci si può rendere conto che stiamo ricostruendo la storia: Piovene, Sacchi, Sciascia, definito “uno scrittore in redazione” - lo stesso titolo andrebbe bene anche per Alvaro -. Alvaro è un grande personaggio, che merita di essere ricordato. Anche Repaci è un grande scrittore calabrese, ma chi lo ricorda?
Nel 2000 è stato pubblicato un inserto su Egisto Corradi e ora sto curando una tesi su di lui; abbiamo anche ricordato Baldacci, il fondatore del Giorno… Ci stiamo occupando di tanto, perché non si perda la memoria, perché i giovani non perdano la memoria del passato. Perché se si perde il filo della propria storia, si perde anche la propria identità.

Alvaro racconta così, in Luigi Albertini, la sua prima esperienza al Corriere della Sera: “Ricorderò sempre, dei due anni che io passai là dentro, una sera in cui mi fu data da rivedere la corrispondenza politica romana, già dettata da Roma e ripetuta da Milano al dettatore per il controllo. Un redattore, consegnandomi le cartelle, mi fece un discorsetto per ricordarmi la importanza dell’incarico, la delicatezza del lavoro, la responsabilità dell’impegno e nello stesso tempo l’atto di fiducia che si provava a farmi.
Guardatemi bene in faccia. Io non ho tremato di fronte al nemico, quella sera ebbi i più vili dubbi ortografici sulla punta della mia penna e la più tetra disperazione nell’animo”.
Come sono state le sue prime esperienze da giornalista?

Io ho una strana storia alle spalle: mio padre era capo ufficio alle poste e mi portava, fin da quando ero ragazzino, pacchi di giornali: di destra, di sinistra, di centro…Io ero attento e leggevo tutto, anche se in maniera confusa. Non avevo le basi per comprendere la politica, la storia…Ero un ragazzino di dodici, tredici anni. Però mi interessavo di tutto, anche se non capivo. Quindi sono stato portato da questa circostanza al giornalismo. Il primo giornalino cui ho collaborato è stato quello del liceo classico “Teresio” di Cosenza; aveva un titolo che riprendeva il motto dei Balilla, che può far pensare alla politica, alla patria, ma in realtà i contenuti riguardavano ciò che avveniva a scuola, non c’era alcuna venatura politica. Questa è stata la mia prima esperienza. Poi ricordo che nel 1956, quando frequentavo la prima classe del liceo, l’Italia fu eliminata dai campionati del Mondo e ho scritto un articolo violento, ci voleva polso. Io conoscevo tutte le formazioni calcistiche, di serie A, B, le squadre nazionali… seguivo il Corriere dello sport come Bibbia. Poi ricordo il Giorno, per cui avrei lavorato in futuro: mi sono innamorato di questo giornale, che arrivava a Cosenza nel pomeriggio. Erano gli ultimi anni del liceo, gli anni delle grandi scoperte sui problemi del sud, il meridionalismo, la contrapposizione tra nord e sud. Poi è incominciato il primo lavoro di cronista nella redazione di Cosenza del Tempo di Roma; mi ricordo che eravamo senza alcuna esperienza. Cosenza era una città di provincia, chiusa, e svolgere lì il mio lavoro mi ha fatto capire che dovevo andar via; se il tuo destino è quello di fare il giornalista non puoi non guardarti attorno, capisci che la storia d’Italia l’ha fatta sempre Milano, nel bene e nel male, come Parigi in Francia, quindi appena puoi ti trasferisci. Lavoravo anche per la Gazzetta del sud e come corrispondente di Tuttosport di Torino. Poi ho realizzato un’inchiesta sulla scuola elementare in Calabria - è stata la mia prima inchiesta - e mi arrivò una lettera di Enrico De Biase, l’amministratore delegato di Montedison - allora era solo Edison - che aveva lavorato in Calabria per la costruzione delle centrali idroelettriche della Sila; mi mandò questa lettera in cui scriveva di aver apprezzato il mio servizio e in cui ricordava la Calabria degli anni ’20, quando girava per la Sila a bordo della a’vittura, che era l’asino. Poi mi sono procurato altre conoscenze a Milano, ho collaborato con Italia sud, un settimanale un po’ più grande del formato dell’Espresso di oggi, in cui si trattavano i probemi del Mezzogiorno, e ho conosciuto una grande persona di Milano che mi ha presentato a Gianni Granzotto e a Gaetano Afeltra che stavano per fondare Oggi quotidiano. E io nel febbraio del 1962, 43 anni fa, ero a Milano perché Granzotto e Afeltra mi volevano parlare, mi volevano conoscere; così ho conosciuto Granzotto e Afeltra. C’era il giovanissimo figlio di Granzotto che oggi ha la mia età e scrive sul Giornale; qualche tempo fa l’ho incontrato a una cena e gli ho rivolto queste parole: “Tu non ti ricordi ma nel’62 io sono venuto alla Rizzoli e ho incontrato tuo papà e Gaetano Afeltra, che fece questa battuta: ‘Oramai in Lombardia ci sono migliaia di meridionali e, per fare cronaca tra i meridionali, ci vuole un cronista meridionale’”. Afeltra sarebbe diventato in seguito mio direttore al Giorno. Mi ricordo quando prendevo il tram per arrivare in quella che oggi è via Rizzoli… Studiavo a Roma ma poi mi sono trasferito a Milano per sempre. Tutto qui…così ho cominciato. Poi sono arrivato al Giorno, che era il mio giornale sognato.

Calvino scrive che non bisogna confondere la leggerezza con la frivolezza. Qual è secondo lei il segreto per scrivere bene giornalisticamente, riuscendo a togliere peso alle frasi e mantenendo comunque la forza e il peso delle idee?

Mi viene in mente la scuola di Mieli, il mielismo. Una delle caratteristiche dei giornali di Mieli, dal 1990 al 1992 alla Stampa e dal 1992 al 1997 al Corriere della sera, era quella di trattare gli argomenti frivoli con la serietà riservata di solito agli argomenti di peso e, viceversa, gli argomenti di peso con una certa frivolezza per renderli più gradevoli e appetibili. Non è che la frivolezza possa considerarsi un metodo di lavoro, assolutamente no; anche perché il giornalista - quando parlo di giornalista parlo del cronista, sia esso inviato speciale o cronista di città - deve accertare i fatti, e un’altra cosa è come li scrive, come li presenta. Questo può avvenire in maniera apparentemente frivola: se si cerca la storia di un personaggio si tende a mettere in luce anche gli aspetti particolari, che possono essere frivoli - se mangia il gelato, se è un patito di castagne, o di pasta e ceci piuttosto che delle lasagne, se era tenace nello studio…-. Questi aspetti servono a offrire un quadro completo del personaggio che si vuole descrivere. Bisogna dire al pubblico chi è il personaggio, e lo si può fare in tanti modi, attraverso i suoi studi, le sue passioni, i suoi amori… Il più grande cronista della storia è stato Omero: con i suoi due libri ha raccontato due storie, una guerra che scoppia per una donna e l’eroe che torna in Patria dopo averne passate di tutti i colori e che, come diceva Dante, ha tentato di oltrepassare le colonne d’Ercole, ha sfidato la natura, ha dimostrato la forza innovativa dell’uomo, il coraggio.
Quindi gli argomenti, come insegna Mieli, possono essere trattati con allegria e con brio, con apparente frivolezza, per renderli gradevoli.

Si può, secondo lei, assegnare al giornalista il motto latino “Festina lente”, che significa “affrettati lentamente” (Dottor Franco Abruzzo: È anche il motto degli alpini, che camminano sempre ma con passo lento) considerando che è fondamentale in questa professione la velocità ma anche la pazienza e la tenacia?

Sì, però bisogna considerare che il cronista ha un grande nemico: l’orologio. Se un fatto di cronaca di un certo peso esplode alle 19.00 o alle 20.00 e il giornale chiude la prima edizione alle 23.15, bisogna camminare velocemente: c’è da scrivere il pezzo, passarlo al capo, titolarlo, impaginare tutto; poi i fatti vanno anche accertati, altrimenti si può incorrere in sanzioni giudiziarie per errori che tante volte la fretta porta a commettere; e la fretta non giustifica l’errore, l’ha stabilito la Cassazione recentemente. Se il fatto capita prima certamente si ha più tempo, però in quel caso bisogna pensare che viene trattato prima dalla radio, dalla televisione e da Internet. Oggi il giornalista di carta stampata ha questi tre concorrenti, che hanno risolto il problema del tempo e dello spazio. Un giornale in Internet può avere anche cinquanta edizioni al giorno e non tiene conto dello spazio: la rete può contenere tutto, non si ha a che fare con un giornale che ha sedici, trentadue o sessantaquattro pagine, uno spazio già rigidamente definito, che esce al mattino, che ha un ciclo di produzione da rispettare. È diverso. La radio e la televisione hanno ucciso i giornali del pomeriggio, perché erano inutili se le notizie erano già state diffuse da questi mezzi. Quindi qual è il lavoro del giornalista di carta stampata oggi? Leggere dietro il fatto, fare una ricostruzione, uno scavo profondo che non si addice alla radio, alla televisione e a Internet, perché questi sono mezzi che prediligono la velocità, che danno la notizia. La carta stampata vive e può vivere trovando una sua nicchia, a patto che offra qualcosa che radio, televisione e Internet non possono offrire: i retroscena. I giornali devono essere settimanali che escono tutti i giorni: Repubblica è uscito con questo slogan, il Giorno produceva le inchieste.

Calvino parla di “peste del linguaggio”: oggi si tende a esprimersi usando sempre le stesse parole, ignorando le ricchezze e le sfumature della propria lingua. Come il giornalista può guarire e guarirsi da questa malattia?

Ad esempio prendendo come modello un grandissimo giornalista sportivo che non solo utilizzava tutte le sfumature della lingua ma che ha anche creato parole nuove, inventato il linguaggio del calcio, dell’atletica, della boxe, che è stato perfino citato dall’Accademia della Crusca: Gianni Brera. Arricchiva la sua lingua con il dialetto: in lui c’era questa osmosi tra dialetto e lingua nazionale. Aveva ragione lui: la lingua italiana non ha bisogno di inserire nel suo vocabolario parole straniere perché abbiamo una grande lingua, con tanta varietà di parole; e dobbiamo fare tesoro del linguaggio spontaneo, effervescente del dialetto, o dei dialetti. Portiamo i dialetti nella lingua. Si pensi all’evoluzione della lingua nazionale da Dante a Machiavelli a Manzoni, fino ai grandi di oggi: la lingua è come il corpo di una persona, si evolve e cambia nel tempo.

Una delle caratteristiche della cultura di massa è la pervasività: può raggiungere ogni luogo della terra. Secondo lei, questo è un bene o un male?

È un dato inevitabile perché oggi, come dice McLuhan, siamo nel villaggio globale. Siamo in un immenso villaggio. Appena accade qualcosa, nel giro di pochi minuti si apprende la notizia a Milano, a Washington, in Sudafrica, Londra, Russia, Australia, Giappone, Cina.

Alvaro passa da un tema all’altro: Letteratura, Cinema, Teatro, dalle atmosfere delle città orientali alle dure condizioni di vita di pastori e contadini calabresi. Secondo lei, per essere un bravo giornalista, contano ugualmente l’ampiezza del bagaglio culturale e l’esperienza sul campo?

Alvaro era un uomo colto. Con Sciascia e altri è da inserire nella categoria degli intellettuali meridionali. Avevano una cultura europea enorme; hanno sempre letto dal mondo greco al mondo latino, ma quello greco soprattutto, Dante e gli altri grandi autori italiani e dell’Illuminismo; poi sono andati alla ricerca della loro storia, hanno cercato di far diventare di interesse nazionale argomenti legati ai propri luoghi d’origine - Sciascia aveva un rapporto difficile con la sua terra, di odio e amore, come diceva lui -.
Per un giornalista è importante l’una e l’altra cosa: il bagaglio culturale e l’esperienza sul campo. Parliamoci chiaro: il giornalista deve nascere in Università, deve avere una formazione, gli strumenti, deve conoscere la storia, la sociologia, la società, la criminalità, l’ordinamento dello Stato…Se non possiede strumenti culturali, non sarà in grado di valutare adeguatamente i fatti, di capirli, di trasmetterli, di stabilire se una notizia vale tre colonne oppure otto, se merita di essere collocata in apertura o in settima pagina. La stagione dei giornalisti che nascevano sul marciapiede, se mai è esistita, è finita. Prendiamo come esempio Walter Tobagi: era un grande inviato, faceva le interviste ai politici, ma era un mostro di bravura, di letture fatte, aveva una grande conoscenza storica e politica, un bagaglio culturale immenso; è chiaro che il direttore responsabile si affida a qualcuno che possiede questa preparazione. È l’appello che faccio ai giovani: il lavoro c’è ma bisogna studiare; un giornalista che non ha alle spalle la conoscenza della storia del giornalismo è un demie, come dicono i francesi, un dimezzato; deve avere una visione di tutti i vari passaggi della storia della professione: attraverso la storia del giornalismo si coglie la storia della propria nazione, dell’Europa, degli Stati Uniti; in Francia e negli Stati Uniti ci sono state le grandi Rivoluzioni liberali del Settecento. Deve esserci il retroterra culturale, quando si valuta un fatto bisogna capire, bisogna conoscere. Questo si acquista con la continua lettura, con il metodo storico. Il giornalista è uno storico dell’istante, diceva Eco: deve usare le armi che gli storici usano quando indagano, cioè le carte, le testimonianze…deve svolgere quel lavoro di scavo di cui parlavo prima e ricordarsi che l’unico suo nemico è questo, il tempo (indica l’orologio).


Indice

Introduzione, p. 2

1. L’UOMO CORRADO ALVARO

1.1 . La personalità, p. 4
1.2. La vita, p. 5

2. IL GIORNALISMO

2.1. Le testate, p. 10
2.2. Scrittore e giornalista, p. 12
2.3. La collaborazione al Mondo, p. 13
2.4. La collaborazione alla Stampa, p. 15
2.5. La collaborazione al Corriere della Sera, p. 17

3. L’ANALISI

3.1. I criteri, p. 20
3.2. La leggerezza, p. 21
- Le donne di Roma, La Stampa, 14 aprile 1926, p. 22
- Perfino le pastorelle del presepio oggi imitano le “pin up girls”, Corriere della Sera, 25 dicembre 1953, p. 25
3.3. La rapidità, p. 28
- Colore di Copenaghen, La Stampa, 18 maggio 1952, p. 30
- Alberghi d’Oriente, La Stampa, 1 aprile 1933, p. 33
3.4. L’esattezza, p. 36
- Letteratura, Il Mondo, 22 agosto 1924, p. 39
- Immagine del poeta, Il Mondo, 12 settembre 1923, p. 42
3.5. La visibilità, p. 46
- Cinema, La Stampa, 11 maggio 1926, p. 49
- Qualcuno ride, Il Mondo, 23 settembre 1950, p. 53
3.6. La molteplicità, p. 56
- Documenti di vita, La Stampa, 19 novembre 1952, p. 58
- Pagine diverse, Corriere della Sera, 14 gennaio 1956, p. 63

4. L’INTERVISTA

4.1. Colloquio con il Dott. Franco Abruzzo, p. 68

Bibliografia, p. 76

Appendice, p. 77

Bibliografia

G. Rando, Corrado Alvaro narratore, l’officina giornalistica, Reggio Calabria, Falzea editore, 2004.
A cura e con postfazione di M. Strati, Introduzione di W. Pedullà, Corrado Alvaro, Scritti dispersi, 1921-1956, Milano, Bompiani, 1995.
I. Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Milano, Mondadori, 1993.
C. Alvaro, Il nostro tempo e la speranza. Saggi di vita contemporanea, Milano, Bompiani, 1952.
C. Alvaro, Il viaggio, Brescia, Morcelliana, 1942.
C. Alvaro, Quasi una vita. Giornale di uno scrittore, Milano, Bompiani, 1950.
C. Alvaro, Luigi Albertini, Roma, Formiggini, 1925
Z. Bauman, Modernità liquida, Roma-Bari, Laterza 2003.
S. Tosoni, Identità virtuali. Comunicazione mediata da computer e processi di costruzione dell’identità personale, Milano, Franco Angeli editore, 2004.
Piero Bianucci, La verità confezionata. Come leggere un giornale, Torino, Paravia, 1974.
G. Farinelli, E. Paccagnini, G. Santambrogio, A. I. Villa, Storia del giornalismo italiano. Dalle origini ai nostri giorni, Torino, Utet, 1997.
S. Lepri, Professione giornalista, Milano, Etas 1991.
G. Santambrogio, Giornalismo. Appunti delle lezioni, appendice di documentazione, Milano, Pubblicazioni dell’I.S.U. Università Cattolica, 2003.

Siti internet consultati

www.fondazionecorradoalvaro.it
http://baruffi.ceva.infosys.it
www.italialibri.net
www.odg.mi.it

Appendice

Sono stati recuperati, fotocopiandoli dalle microfiches custodite nella Biblioteca “Sormani” di Milano, quasi tutti gli articoli analizzati. La qualità non è eccellente (si tratta pur sempre della riproduzione di pagine antiche) ma i pezzi possono essere letti interamente e osservati nella loro posizione originaria sulla pagina. Gli articoli mancanti sono stati battuti a computer (la fonte è Corrado Alvaro. Scritti dispersi 1921 - 1956 ).
Di uno scritto, “Le donne di Roma”, mancano alcune righe; per chi volesse completare la lettura del testo, si trascrivono di seguito: “[…] il mondo delle piccine che hanno la casa piena di gingilli, amano il loro nido e lo custodiscono.
Ricorderò sempre con soddisfazione, come una prova delle mie osservazioni, una donna alta, grande, grossa, ma ben fatta, una specie di ellisse vivente, un fuso di quelli col piè leggero e le due ampie rotelle al sommo […]”.

 

 

 




















Marianna Vazzana

 

 

                                                                  

 Tesi :Corrado Alvaro giornalista. Una rilettura alla luce delle "Lezioni americane" di Italo Calvino

di Marianna Vazzana

a cura di Maria Richichi