Il primo a sinistra
è il Prof. Giovanni Belluscio,
Ricercatore all'Università della Calabria -
Dipartimento di Linguistica -
Cattedra di Lingua e letteratura albanese
PUBBLICATO su "Mezzoeuro" edizione cartacea
e-link : www.mezzoeuro.it
Settembre 2006
PUBBLICATO sul settimanale “Mezzoeuro”del 16 settembre 2006
di Giovanni Belluscio
De(j)ti è parola albanese interessante per il suo significato etimologico ma anche per quello culturale. Se da una parte pare che gli albanesi-arbëreshë non abbiano avuto né abbiano una cultura marinara, e ciò viene evidenziato dall’assenza nel loro lessico proprio della consistente parte della terminologia marina(ra), dall’altra, invece, un seppur piccolo numero di parole ci indica che comunque essi hanno sicuramente avuto contatti con il mare. Ed è proprio la parola mare ‘deeti’ (con la -e- lunga) che più di tutte riconduce direttamente alle radici indoeuropee. L’origine della parola, forma ricostruita dai linguisti, porta a un i.e. *dheub-etos = ‘profondo’, al quale va ricondotto anche deep, nota parola inglese con identico significato. Dunque, a quanto pare, agli occhi degli albanesi il tratto più importante che caratterizzò il mare fu la sua ‘profondità’.
Passando ora al mare in letteratura e, ciò che a noi interessa maggiormente, soprattutto nella letteratura arbëreshe, va detto che esso ricorre poco di frequente. Ma qui ci interessa invece la sua ricorrente presenza in tutti i libri di Carmine Abate: per questo nostro autore arbëresh, che usa la lingua italiana come strumento creativo, de(j)ti-il mare è un personaggio-non personaggio che non manca mai all’appuntamento delle sue storie.
Nel Ballo tondo (1991, ristampa 2005) de(j)ti è il pontos (mare=ponte) spazio-temporale che unisce le sponde dello Jonio crotonese alle sponde dei Balcani e della triste Morea verso le quali si rivolge il canto del rapsodo Luca Rodotà e i commoventi pensieri di nani Lisandri.
Nella Moto di Scanderbeg (1999) de(j)ti riacquista la sua dimensione attuale: vacanza-sole-sabbia, ragazza-amore, juke-box.
In Tra due mari (2002) – e come poteva essere altrimenti! – de(j)ti è la meta, il filo conduttore in alcune situazioni e lo sfondo delle fotografie di Hans Neumann.
Anche nella Festa del ritorno (2004), romanzo forse più autunnale ed invernale degli altri, de(j)ti non manca. Sbuca nella vita del giovane protagonista narrante e di sua nonna nella sua dimensione terapeutica ma comunque funzionale alla storia.
Nel Mosaico del tempo grande (2006) de(j)ti è le due facce della stessa medaglia: il luogo del dolore recente e di quello arcaico. Qui il cerchio si chiude, veramente. Tra due fughe, due paure: il bambino che lo rifugge nel XX secolo ed i profughi del XV secolo che lo temono.
Ai lettori, che immaginiamo appunto beatamente stesi al sole mentre leggono Mezzoeuro, il piacere di scoprire il personaggio-de(j)ti-mare come lo ha visto-vissuto-descritto Abate nei suoi romanzi. Buona lettura e buona estate.* * *
Per tutta l’estate, ogni domenica andarono al mare, scendendo lungo una strada a serpentina, piena di buche, che faceva vomitare zonja Elena. All’arrivo, la povera donna era più morta che viva. Ma l’acqua del mare, in cui immergeva i piedi, la faceva resuscitare subito. Costantino era l’unico che sapesse nuotare: aveva imparato nel Bosco del Canale, dentro una vasca in pietra che per anni era stata la piscina dei bambini di Hora. Ma appena si allontanava un po’ dalla riva, doveva sopportare un coro di «attento, attento, non andare lontano che t’affoghi e poi ti do il resto». A sentire questa involontaria battuta, Costantino, rideva e sguizzava tra i piedi dei suoi spruzzando schizzi d’acqua coi pugni in faccia a Lucrezia che del mare aveva paura. Era bella la sorella in bikini, soda e slanciata, la pelle imperlata di goccioline salate, un’attrice della pubblicità. La madre, invece, nascondeva in un camicione di nylon senza maniche le sue carni esuberanti, da precoce anziana di paese. Riuscirono a trascinare anche nani Lissandro al mare, e faceva tenerezza vederlo in costume da sotto l’ombrellone, con le gambe sottili come fil di ferro storte, bianche più del latte. La sera tornavano a casa tutti scottati sulle spalle e sul naso, tranne Costantino, bruno di carnagione che s’anneriva sempre di più.
(Il ballo tondo, Marietti, 1991, p. 90)* * *
Una giornata di mare
Era un’estate incredibilmente afosa, la più calda estate che ricordi. Resistetti tre giorni ad aiutare mia madre nell’orto sotto casa.
[…]
Il quarto giorno guidavo la moto Guzzi Dondolino verso il mare del Tredici e alle mie spalle era appoggiato il ragazzino dagli occhi di calamita.
[…]
Il pensiero che stavo scappando da quel caldo soffocante e che mi sarei tuffato nell’acqua con Claudia mi fece sentire ubriaco, la testa mi girava, andava per i fatti suoi, leggera leggera, una piuma felice. Le parole serie e scherzose del ragazzino si erano perse nel vento.
Quando la moto s’arrestò a un passo dalla spiaggia, vidi Claudia sdraiata sul mare, gli occhi chiusi, a fare il morto, la pelle bruna imperlata di goccioline trasparenti; i suoi seni galleggiavano morbidi sull’acqua e attiravano, oltre ai raggi del sole, dozzine di occhi incantati.
Accarezzata dal mio sguardo, Claudia aprì gli occhi. Fu così contenta di rivedermi che gridò il mio nome a squarciagola, facendo voltare verso di lei molti bagnanti. Poi riconquistò la riva con bracciate veloci e mi si piantò davanti.
[…]
Ci divertimmo per tutta la giornata , tutt’e tre, in acqua e sulla spiaggia, al bar a mangiare un panino accanto al juke-box che ci inondava col «mare nero mare nero mare né, tu eri chiaro e trasparente come me», e per una buona mezzora Claudia e io, soli, nel canneto sotto il ponte, spariti alla vista indifferente della spiaggia, «perché ho voglia di baciarti» le avevo detto, e fu davvero come se gli altri non esistessero.
(La moto di Skanderbeg, Fazi, ed. 2001, p. 34 segg. )* * *
Mi liberavo completamente di Martina e delle altre mosche solo il fine settimana, quando gli zii mi portavano al mare tra Copanello e Soverato. «Qui» diceva zio Bruno come se recitasse «il furbo Ulisse incontrò la bella Nausicaa.» Era una spiaggia quasi deserta, scelta dallo zio perché lontanissima da quelle sul Tirreno, frequentate dagli scocciatori di Roccalba, diceva, dai loro occhi pettegoli. Teresa, senza le amiche, si appartava in un silenzio ostile anche nei miei confronti e leggeva riviste tutto il tempo sotto l’ombrellone, con mio grande godimento. Così potevo ammirare in santa pace i pesciolini nell’acqua limpida o le gocce di sudore sul petto della zia, che il costume da bagno tratteneva a stento e le mani possessive dello zio, con la scusa di spalmarle la crema solare, massaggiavano senza ritegno. Nuotavo a lungo, per non vedere quelle mani grassocce e pelose. Al ritorno mi buttavo con la pancia sulla sabbia e sbirciavo di nascosto la mia bella zia che arrostiva sotto il sole sena lamentarsi, mentre Teresa sbuffava e lo zio era finalmente in acqua, non molto distante dalla riva, perché non sapeva nuotare né si fidava della propria pancia, che avrebbe potuto tenerlo a galla come un salvagente.
. . .
Risalgono lo Ionio fino a Le Castella, fanno il bagno per rinfrescarsi, il mare è trasparente e caldo, i banchi di piccole alici sono guizzi di luce: si asciugano su uno scoglio: da lì, il castello nell’acqua sembra in volo nel celeste di mare e cielo.
Poi costeggiano un breve tratto di mare verso nord, fino a Capo Colonna. E qui Hans fa mitragliate di foto. La più bella ritrae Giorgio davanti alla colonna superstite del tempio di Hera Lacinia, la faccia piena di ombre in movimento. Dietro il mare è acceso di sole.
(Tra due mari, Mondadori, 2004, pp. 50 e 191)
* * *
Il sole sbuca sopra le loro teste, mentre molti guardano invano verso la collina lontana, e illumina il mare, fa aprire gli occhi a chi si è finalmente appisolato. Dhimitri Damis bacia la moglie sulla fronte. «Mirëdita Anesa» le sussurra.
[…]
Tutti guardano il mare, e l’azzurro scintillante sostituisce per un attimo il ricordo della ferita di fuoco nella collina. Si voltano e vedono la loro terra abbassarsi sempre di più, fino ad appiattirsi sulla linea sottile della spiaggia e poi lasciare il posto a un orizzonte di acqua e di cielo.
Cielo e acqua. Acqua e cielo. Acqua di mare e all’improvviso acqua di cielo. Piove a dirotto sulle teste dei profughi.. . .
Siamo arrivati al mare in un quarto d’ora. Dal cassone abbiamo scaricato la borsa-frigo con i panini e le bevande, la sacca con i teli e la crema solare, i panari di frutta, l’ombrellone, una busta stracolma di giocattoli. Quando abbiamo finito, Laura ha esclamato: «Speriamo bene!». Io non ho capito, non potevo capire la sua esclamazione enigmatica.
La spiaggia era affollata di gente allegra e di ombrelloni, il mare luccicava invitante. Il bambino si è fermato nella prima striscia di sabbia, lontanissimo dall’acqua.
«Avanti Zef, cammina ancora un po’, il mare è più in là» ho provato a convincerlo. Ma non c’è stato verso, non si è spostato di un centimetro in direzione della riva. Si è messo invece a scavare nella sabbia con una paletta, le spalle al mare.
Laura mi ha pregato di non insistere e di sistemare l’ombrellone in quel limbo vuoto di gente e pieno di piante grasse, rametti e spine portati dal vento, il tratto più schifoso di tutta la spiaggia. «Mi dispiace, si vede che a Zef il mare fa paura» ha detto
[…].
«Facciamo il bagno a turno per non lasciare il bambino da solo» ha detto Laura. «Vai prima tu.»
L’acqua era tiepida. Ho nuotato a lungo e poi, esausto, mi sono sdraiato sulla battigia. Mi dispiaceva non avere Laura accanto a me, confrontare finalmente il colore del mare a riva con quello dei suoi occhi, nuotare sott’acqua assieme a lei e baciarla, tuffarci nell’onda mano nella mano con Zef. Insomma, per quella giornata avevo altre aspettative che non di cuocermi sdraiato sulla riva del mare, per giunta da solo.
(Il mosaico del tempo grande, Mondadori, 2006, pp. 25 e 187)
[pubblicato su MEZZOEURO, settimanale calabrese a diffusione regionale, sabato 16 settembre 2006]