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"L'AZIONE INIBITORIA ex art.1469-sexies c.c."


INTRODUZIONE: L'Azione inibitoria in generale


Capitolo Primo: Cenni storici e profili comparatistici

  1. Le origini della tutela dei consumatori: progetti del Consiglio d'Europa e della Comunità Economica Europea.

  2. L'AGB-GESETZ tedesca.

  3. Il Progetto Bianca del 1981.

  4. La direttiva comunitaria 93/13 e il tardivo recepimento in Italia con la l. 52/96.

Capitolo Secondo: Caratteristiche generali dell’Azione Inibitoria

  1. Contratti collettivi e contratti individuali: differenze applicative rispetto gli artt. 1341-1342 c.c.

  2. Accertamento della vessatorietà delle clausole e onere probatorio.

  3. Azione inibitoria ordinaria e azione inibitoria urgente.
  4. 3.1. La posizione ella giurisprudenza in merito all’azione inibitoria
    urgente: alcuni provvedimenti esemplificativi.
  5. La definizione della tutela dei consumatori con la l. 281/1998 e il Codice del Consumo del 23/10/2005.

Capitolo Terzo: Problematiche processuali
  1. Premessa.

  2. Giurisdizione e competenza.

  3. Legittimazione attiva e interesse ad agire.

  4. Legittimazione passiva: caso "CITRÖEN" e caso "FIAT".

  5. Contenuti ed effetti della sentenza inibitoria tra le parti e sui terzi non attori (limiti oggettivi e soggettivi del giudicato).

  6. Mezzi coercitivi in caso di inottemperanza a sentenza.

INTRODUZIONE
L'AZIONE INIBITORIA IN GENERALE


L'art.25 della legge 6 febbraio 1996 n. 52, in attuazione della direttiva comunitaria 93/13, ha introdotto il capo XIV-bis c.c. intitolato "dei contratti dei consumatori", il cui art.1469-sexies riconosce alle associazioni rappresentative dei consumatori, dei professionisti e alle Camere di commercio la possibilità di convenire in giudizio il professionista o l'associazione di professionisti che utilizzano condizioni generali di contratto e richiedere al giudice che inibisca loro l'uso delle condizioni di cui sia accertata l'abusività.
In buona sostanza, questa è la schematica definizione dell'azione inibitoria, istituto principe della tutela dei consumatori e tema del presente lavoro. Data la copiosa produzione sia letteraria sia giurisprudenziale
concernente detto istituto è mia intenzione focalizzare l'attenzione sulle problematiche processuali più rilevanti, ancorché ritenga opportuno introdurre l'argomentazione trattata con l'analisi delle caratteristiche generali dell'istituto e del travagliato percorso storico sfociato nell'emanazione della famosa legge 52/96.
Nella realtà dei fatti l'art.1469-sexies contiene una norma da tempo attesa e fortemente innovativa, la cui interpretazione, sebbene dibattuta come vedrò nel seguito, evidenzia immediatamente l'eccezionalità della norma stessa. Si tratta infatti di uno strumento di tutela preventiva, ed è questa l’inibitoria in senso stretto, perché inteso come pretesa di colui che sta per essere leso, o sta subendo una lesione, o è in pericolo che si ripeta o continui in futuro, di ottenere dal giudice un ordine indirizzato al trasgressore, di far cessare detto stato di pericolo o comportamento lesivo.
Il risultato cui è teso l'esperimento del rimedio processuale in esame sarà pertanto duplice: da un lato la cessazione del comportamento lesivo eventualmente già posto in essere, dall'altro l'imposizione
all'autore dell'illecito di un obbligo di astensione per il futuro da ulteriori comportamenti dei quali sia accertata l'antigiuridicità. Nella logica della politica del diritto va da sé che l'intento del legislatore sia stato quello di contrastare in questo modo la diffusione delle clausole abusive nel momento del passaggio dalla fase di redazione delle condizioni generali di contratto al momento della loro inserzione nei contratti individuali, ciò per compensare la collettività dei consumatori dalla mancata partecipazione alla redazione delle condizioni generali. L'inibitoria ex art.1469-sexies c.c. è in secondo luogo eccezionale perché riconosciuta non come rimedio specifico contro un danno attuale, ma come azione in cui legittimate risultano essere organizzazioni collettive, il cui specifico interesse nonché compito istituzionale è l'attuazione di norme di diritto obiettivo, poste dunque nell'interesse di una serie indeterminata di soggetti. Quand'anche la
legittimazione sia riconosciuta nell'interesse altrui e l'ente collettivo non possa così disporre con la totale libertà della situazione attivata, non è possibile configurare la fattispecie quale "sostituzione processuale" ex art.81 c.p.c. Ciò perché l'azione per la validità del contratto individuale e le conseguenze risarcitorie dell'eventuale invalidità, rimangono concettualmente distinte e comunque rimesse alla volontà delle parti rispetto l'azione inibitoria collettiva, che invece configura un attore “ideologico”, quale è l’ente o l’organizzazione, cui l’ordinamento riconosce la legittimazione ad agire, oltre che per il proprio interesse, anche per il “diritto diffuso” di intere categorie di individui. Vero è che quanto detto finora non implica uno snaturamento del processo così instaurato, a cui rimangono applicabili tutte le norme e i principi del processo civile (principio della domanda, onere della prova, etc.). Quanto ai presupposti per l’esperibilità dell’azione inibitoria ritengo con certezza che possano rilevare tre elementi basilari: uno positivo, quale è il pericolo di un pregiudizio, e due negativi, quali l’irrilevanza del danno occorso e la colpa dell’agente. Inizialmente era considerato essenziale il collegamento con i danni, e l’inibitoria serviva ad evitare gli stessi; ora invece la dottrina prevalente ha riconosciuto che la tutela preventiva serve concretamente a prevenire l’atto illecito produttivo di pregiudizi, ancorché si tratti di obbligazioni contrattuali e sempre che manchi la fungibilità del
comportamento dell’obbligato, in particolare degli obblighi di nonfacere: per esemplificare, nel patto di mantenimento del segreto. Venendo ora succintamente all’oggetto dell’azione tema del presente
lavoro, posso constatare l’accuratezza del legislatore nella distinzione tra le “clausole” componenti il singolo contratto e le “condizioni generali” predisposte dal professionista di cui all’art.1469-sexies, nelle quali le clausole sono considerate ancora in modo generale e astratto. Il giudizio è instaurato ai fini della “inibizione dell’uso di condizioni generali di contratto di cui sia accertata l’abusività ai sensi del presente capo”. Abbiamo pertanto un duplice oggetto: l’accertamento dell’antigiuridicità ai sensi dell’art.1469-bis, che affronterò ampiamente nel seguito, e la condanna a non impiegarla nei rapporti giuridici futuri.

Capitolo I
1. Le origini della tutela dei consumatori: progetti del Consiglio d'Europa e della Comunità Economica Europea.

Già dagli anni settanta il fenomeno dell'impiego di moduli o formulari mediante i quali le imprese operanti nel mercato instaurano rapporti negoziali con i consumatori e i conseguenti problemi di tutela dei consumatori stessi, formavano oggetto di studi e analisi da parte di organismi e commissioni del Consiglio d'Europa e della Comunità Economica Europea. In proposito l'obiettivo perseguito era, oltre all'esigenza di assicurare una migliore posizione giuridico-economica del consumatore, l'individuazione di modelli di controllo dell'attività imprenditoriale ispirati ai principi di libertà della concorrenza e del commercio accettabili in tutti gli stati membri: è facilmente intuibile, dunque, come i programmi e i progetti oggetto di studio fossero diretti al contemperamento di opposti interessi, quelli dei consumatori acquirenti di prodotti e servizi, e quelli del sistema imprenditoriale e degli imprenditori in concorrenza tra loro. Quest'opera di mediazione degli organismi comunitari fu affrontata con diversi interventi tesi, da un lato all'enunciazione di principi generali, dall'altro, alla specificazione di detti principi con direttive e raccomandazioni comunitarie volte a disciplinare i singoli settori e le singole attività del mercato. Esemplari risultano pertanto le dichiarazioni di principio della "Carta dei diritti dei consumatori" del 1973 e il "Programma preliminare della CEE per una politica di protezione e di informazione dei consumatori". 7 Al fine di meglio attuare la protezione sancita generalmente e in via di principio attraverso questi documenti, la CEE e il Consiglio d'Europa hanno provveduto ad elaborare e redigere avan progetti e proposte di direttiva prendendo ad esempio i modelli legislativi delle esperienze più radicate, quali quella svedese, francese, inglese, ma soprattutto quella tedesca. Il progetto elaborato dal Consiglio d'Europa ricorda infatti il modello legislativo introdotto il 1° aprile 1977 in Germania, il c.d. AGB Gesetz, ed introduce una serie di raccomandazioni agli Stati membri, le cui linee principali prevedono un controllo di natura giudiziale sui contratti, azionabile per iniziativa dei singoli consumatori e articolato in due forme: la previsione di una clausola generale di buona fede che offre criteri di controllo giudiziale dei contratti, ed una elencazione non tassativa di clausole contrarie agli interessi dei consumatori, di per sé inefficaci nei confronti degli stessi. L'operato delle corti veniva snellito attraverso l'istituzione di organismi, anche di natura amministrativa, che operassero un controllo preventivo sui moduli impiegati dalle imprese e sulle tecniche di redazione degli stessi. Muovendosi in questa direzione il Consiglio d'Europa ha individuato un ventaglio di ipotesi di controllo, tra le quali anche la possibilità di istituire un organismo di natura pubblica deputato alla negoziazione delle clausole contrattuali con le imprese o una agenzia amministrativa che prendesse cognizione delle clausole abusive ed invitasse le imprese stesse ad eliminarle dai formulari. Così facendo però, il Consiglio sottovalutava un importante particolare: il forte pericolo di burocratizzazione al quale si sarebbe andati incontro con l'attuazione di una direttiva così strutturata, posto 8 che gli stati membri avrebbero dovuto rivedere il proprio sistema organizzativo nonché processuale. In dipendenza di ciò, la Commissione Europea di competenza ha formulato un altro più corposo progetto di direttiva aperto a modificazioni frutto di eventuali discussioni. In buona sostanza, il controllo dei contratti standard delineato deriva ancora una volta da due archetipi: il controllo giudiziale ed il controllo amministrativo, sempre ricavati dalle regole vigenti nel sistema tedesco. Da una parte infatti si ha una regola generale in base alla quale "le clausole standard che conferiscono un vantaggio indebito al soggetto che le propone saranno dichiarate nulle"; dall'altra si prevede la nullità delle clausole contrarie a norme imperative ed una rassegna di clausole che, essendo per natura sospette di arrecare vantaggi al proponente, sono senz'altro nulle. Accanto al controllo giudiziale così configurato, è previsto un controllo di tipo amministrativo con l'istituzione di un'autorità competente a sorvegliare la circolazione e l'impiego di moduli o formulari, cui corrisponde poi la creazione di appositi organi paragiudiziali deputati alla cognizione delle controversie relative all'utilizzo di detti moduli. Ultima novità introdotta è la previsione di un giudicato efficace ultra partes, onde evitare la dispersione dei giudicati stessi solo, però, in caso di declaratoria di nullità delle clausole sospette. Questo, in linea di massima, fu il primo vero progetto di direttiva comunitaria del Consiglio d'Europa. A prescindere dalle motivazione tecniche, posso brevemente sottolineare le ragioni di natura politico-istituzionale e ideologiche che giustificarono la sua mancata emanazione. Fu troppo frettoloso e 9 superficiale il modo di affrontare alcuni nodi problematici, comunque individuati, ma risolti senza precisione. Basti come esempio il fatto che non fosse previsto un meccanismo volto ad agevolare l'organizzazione degli interessi dei consumatori in associazioni, posto che tutto il sistema progettato fosse azionabile solo ad istanza del singolo. Ancora, ad esempio, era troppo macchinosa e soprattutto costosa per gli Stati membri l'istituzione dei sopradetti organi amministrativi competenti a sorvegliare l'impiego di formulari.

2. L'AGB GESETZ tedesca.

Come è noto, il documento legislativo ispiratore dei progetti di direttiva della Comunità Economica Europea è stato l'AGB Gesetz, legge speciale basata su una ricca esperienza giurisprudenziale ed entrata in vigore il 1° aprile 1977 come culmine di una approfondita discussione teorica e di politica del diritto durata quasi un quarantennio. In via preliminare posso constatare come la legge in oggetto non sia volta alla tutela del consumatore-contraente debole, ma sia in realtà una chiara disciplina del contratto standard, astrazion fatta dalle differenze di potere contrattuale delle parti.In effetti il controllo, devoluto al giudice, opera soltanto sulle condizioni generali di contratto che derogano a norme giuridiche o che integrano la disciplina legale, articolandosi nella seguente modalità: vi è una "lista nera" di clausole inefficaci in ogni caso; una lista di clausole "sospette", la cui efficacia è oggetto di apprezzamento concreto; una clausola generale che dichiara inefficaci le condizioni generali di contratto che pregiudichino fuori misura l'aderente, violando il principio di buona fede. Regola generale è poi l'efficacia della restante parte del contenuto contrattuale, qualora giudicata conforme alla legge. Intelligentemente il legislatore tedesco ha posto rimedio ad alcuni gravi inconvenienti processuali cui si sarebbe andati incontro qualora non avesse previsto innovazioni all'avanguardia. Infatti, accanto all'azione individuale del singolo, ha introdotto un'azione inibitoria svincolata dalla sussistenza di una controversia relativa alle condizioni generali di uno specifico contratto e finalizzata ad un controllo di carattere generale ed astratto sul contenuto dell'atto stesso di predisposizione. In tal modo l'iniziativa processuale è affidata esclusivamente alle associazioni dei consumatori, alle associazioni professionali e alle camere di commercio. Altra innovazione riguarda la sentenza di accoglimento, alla quale è stato attribuito contenuto inibitorio, dovendo riprodurre il testo delle clausole dichiarate invalide e indicare per quali tipi di negozi opera l'inibizione. Tutte le decisioni vengono poi comunicate al Bundeskartellamt che provvede alla loro iscrizione in un apposito registro pubblico. Infine, ma non ultima per importanza, è l'estensione ultra partes dell'efficacia della sentenza di accoglimento poiché, qualora il convenuto dovesse contravvenire al divieto e continuare ad utilizzare clausole dichiarate invalide, queste dovranno considerarsi prive di effetto, anche se, in sede contenziosa spetta all'interessato sollevare la relativa eccezione. Concludendo, mentre le norme sostanziali della legge in esame si sono limitate a codificare la lunga esperienza finora maturata, è indubbio che le norme processuali chiaramente dettate rappresentino la vera innovazione dell'AGB Gesetz.

3. Il Progetto Bianca del 1981.

Contrariamente al sistema tedesco, il Codice Civile italiano, pur avendo il primato di codice moderno contenente disposizioni specifiche dedicate al fenomeno della contrattazione di massa, ha deluso nel momento applicativo perché gli artt.1341-1342 comportavano in realtà, solo un controllo di tipo formale inadeguato alle esigenze di una società moderna. Parimenti gli sforzi giurisprudenziali compiuti non avevano portato molti frutti e l'effettività del controllo sulle condizioni generali di contratto era rimasta scarsa. Si lamentavano infatti l'insufficienza della tecnica di legittimazione ad agire individuale per la debolezza, soprattutto economica, della posizione del singolo contraente e l'eccessiva ristrettezza dei limiti soggettivi di efficacia delle sentenze conclusive del giudizio. Per questi motivi, durante il Convegno di Fiuggi del 1981, il Prof. Massimo Bianca presentò il proprio progetto di riforma, nel quale esternava la condivisione delle scelte tedesche per un controllo giudiziale esteso al contenuto delle condizioni generali di contratto e faceva in parte propria la regola dell'efficacia del giudicato secundum eventum litis. In buona sostanza, il progetto prevedeva l'introduzione degli artt.1341/2, 1341/3, 1341/4, 1341/5 e 1341/6, rispettivamente sulla nullità delle clausole, sulla competenza territoriale, sull'azione inibitoria, sui contratti stipulati dagli enti pubblici e sull'inderogabilità delle norme sulle condizioni generali di contratto. Per opportuna conoscenza e completezza aggiungo solo che il dibattito seguente si sviluppò su tre diversi piani afferenti le norme di ordine sostanziale, di diritto internazionale e di diritto processuale. Nel contesto ciò che interessa sono, ovviamente, solo le novità di ordine processuale che vado brevemente ad illustrare. Uniformandosi al rigoroso modello tedesco, il progetto Bianca ha adottato la soluzione del controllo delle condizioni generali di contratto di carattere successivo, dunque giurisdizionale, individuando un'apposita azione inibitoria per la difesa dell'interesse collettivo dei possibili acquirenti di beni o servizi. In fatto si tratta di un'azione volta ad accertare la nullità di clausole abusive e ad inibire al proponente l'uso delle clausole stesse. La competenza a giudicare spetta al tribunale; la legittimazione attiva, le cui questioni non possono essere sollevate oltre la prima udienza di trattazione, spetta solo ad associazioni adeguatamente rappresentative, camere di commercio, associazioni di lavoratori o imprenditori, altre associazioni che per numero di iscritti possono essere considerate rappresentative; la sentenza di accoglimento produce effetti erga omnes, precludendo, una volta passata in giudicato, la possibilità di riproporre l'azione inibitoria ad altri soggetti legittimati La costruzione così prospettata si è esposta a diversi rilievi critici che ne hanno anche impedito la fattiva concretizzazione in legge. Per raggiungere risultati socialmente utili non era possibile affidarsi esclusivamente a controlli successivi, piuttosto era plausibile promuovere la uniformizzazione della prassi contrattuale; mancava ogni previsione in merito all'eventuale inottemperanza al giudicato da parte delle imprese convenute; mancava infine la previsione di adeguate forme di pubblicità della sentenza. Per far capire a fondo devo però sottolineare le motivazioni giustificanti una riforma. In generale una riforma è attuata per modificare o comunque migliorare la tutela, l'organizzazione, o il semplice stato dell'esistente anche per fini socialmente utili. Questa riforma, ritengo, si affacciava in un momento storico particolare, gli anni 70-80, caratterizzato da un ristagnamento generalizzato dell'economia e delle attività imprenditoriali, e dall'instabilità latente del quadro politico. Per questi motivi probabilmente non si è provveduto all'emanazione di una legge, che avrebbe limitato la libertà delle imprese nella contrattazione collettiva.

3. La direttiva comunitaria 93/13 e il tardivo recepimento in Italia con la legge 52/1996.

Nonostante le descritte difficoltà il problema della tutela dei consumatori non fu mai tralasciato dalla Comunità Economica Europea, vero è che nel 1990 la Commissione presentò un'altra proposta di direttiva concernente le "clausole inique nei contratti stipulati con i consumatori". Gli scopi prefissati sono illustrati nei "considerando" della proposta e si riferiscono fondamentalmente al mercato unico che dal 1° gennaio 1993 si aprirà alla circolazione libera di beni, servizi, capitali; alla disparità delle discipline statuali relative alle condizioni generali di contratto, alle garanzie nella vendita e nell'offerta di servizi, alle posizioni giuridiche delle imprese e dei consumatori; in generale alla necessità di uniformare il trattamento delle imprese e promuovere la posizione dei consumatori, colpendo con la nullità le clausole vessatorie, consentendo l'intervento giudiziale o amministrativo promosso dai singoli o dalle associazioni, ma soprattutto prevenendo l'inserimento delle clausole stesse nei contratti per adesione. Il testo definitivo della direttiva, approvato il 5 aprile 1993, ribadisce in parte le scelte già presenti nelle antecedenti Proposte e contiene un modello di controllo delle condizioni generali elastico e aperto. In sintesi posso affermare che l'elenco delle clausole vessatorie è semplicemente orientativo, dunque non tipico e, in ogni caso, l'accertamento della vessatorietà è valutata anche in via interpretativa in combinazione con le altre clausole. Per quanto riguarda l'ambito di applicazione della disciplina è da notare come concerna soltanto i contratti stipulati con i consumatori da un "professionista", inteso come persona fisica o giuridica che agisce nel quadro della sua attività professionale pubblica o privata, sulla base di un testo unilateralmente predisposto. Un'altra importante caratteristica, contemplata nell'art.7 della direttiva, riguarda la mancata scelta a favore di un sistema di controllo dei contratti giudiziale o amministrativo, poiché è lasciata facoltà agli Stati membri di scegliere i mezzi ritenuti più adeguati ed efficaci per far cessare l'inserzione di clausole abusive ed è stabilito altresì che i ricorsi possano essere diretti, separatamente o congiuntamente, nei confronti di più professionisti del medesimo settore economico o delle loro associazioni che utilizzano o raccomandano l'utilizzo delle medesime condizioni generali di contratto. Gli Stati membri avrebbero dovuto conformarsi alla direttiva in esame entro il 31 dicembre 1994, ma per svariati motivi che non ritengo opportuno valutare in questa sede, lo Stato italiano attuò le predette disposizioni con due anni di ritardo con la legge 6 febbraio 1996 n° 52, che ha introdotto il capo XIV-bis intitolato "dei contratti dei consumatori" contenente gli artt.1469-bis e seguenti. In via preliminare è bene precisare che mentre la direttiva qualificava le clausole determinanti uno squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto concluso tra un consumatore e un professionista come "abusive", l'art.1469-bis le qualifica come "vessatorie". Secondo alcuni tale difformità terminologica andrebbe attribuita alla sciatteria dei redattori nella stesura della norma, secondo altri, con i quali concordo, troverebbe la propria ragion d'essere nel fatto che il legislatore avrebbe concepito l'inibitoria come rimedio indipendente da qualsiasi concreta vessazione del consumatore, diretto perciò a sanzionare l'abuso compiuto dal predisponente nella sua sfera unilaterale. La nuova normativa peraltro attribuisce il compito di esercitare un controllo sostanziale sui contratti all'autorità giudiziaria, sia nelle controversie individuali, sia in quelle collettive promosse da associazioni e tese ad inibire per il futuro l'utilizzazione da parte dei professionisti di condizioni generali di contratto riconosciute come vessatorie. E' questo importante strumento collettivo di tutela giudiziaria, certo non nuovo nel Nostro ordinamento, ma certo non tradizionale, che occupa il presente lavoro. L'art.1469-sexies infatti introduce l'azione inibitoria promossa dalle associazioni dei consumatori, dei professionisti e delle camere di commercio.

Capitolo II
1. Contratti collettivi e contratti individuali: differenze applicative rispetto
gli artt. 1341-1342 c.c.

La disciplina introdotta nel 1996 dagli artt. 1469-bis e seguenti del Codice Civile circoscrive la propria applicabilità ai contatti conclusi tra un" professionista" e un "consumatore", dunque tra una persona fisica o
giuridica che nel quadro della sua attività imprenditoriale o professionale utilizza condizioni generali di contratto, e una persona fisica che agisce per scopi estranei alla sua attività imprenditoriale o professionale.
Per un'analisi corretta della normativa, in via preliminare, occorre aver riguardo del confronto della stessa con i preesistenti artt. 1341-1342 c.c., spesso decantati dalla dottrina come una delle ragioni del primato del nostro Codice Civile in materia di tutela del consumatore, ma in punto pratico, poco funzionali. L'art. 1341 c.c. disciplina, infatti, in modo piuttosto approssimativo le condizioni generali di contratto predisposte
da uno dei contraenti, stabilendo semplicemente che sono efficaci nei confronti dell'altro se, al momento della conclusione del contratto, questi le ha conosciute o avrebbe dovuto conoscerle usando l'ordinaria
diligenza. A ciò si aggiunga solo che le condizioni generali che stabiliscono, a favore del predisponente, limitazioni di responsabilità, facoltà di recedere dal contratto, o più in generale, mettono in pericolo
l'equilibrio sinallagmatico del contratto stesso, non hanno in ogni caso effetto se non sono specificamente approvate per iscritto. L'art. 1342 c.c., invece, stabilisce che nei contratti conclusi mediante la sottoscrizione di moduli o formulari, le clausole aggiunte prevalgono su quelle del modulo qualora siano incompatibili con esse. Stanti così le cose, si desume, l'unica possibilità lasciata all'interprete, nonché al giudice, si riduce ad un controllo sul contratto del tutto formale, nonché conseguente all'instaurazione di un giudizio teso unicamente all'accertamento dell'invalidità del contratto stesso. Orbene, in merito alle differenze applicative tra gli artt. 1341-1342 c.c. e 1469-bis e seguenti c.c. potrebbe sostenersi che l'area soggetta ai primi comprenderebbe, i contratti tra imprenditori, i contratti tra consumatori, i contratti tra impresa e persona giuridica e gli acquisti ad uso promiscuo; ciò perché non meglio specificato dal legislatore né agli stessi articoli in esame, né altrove. A norma degli artt. 1469-bis e seguenti c.c., invece, l'area influenzata dagli stessi riguarderebbe i contratti in cui controparte dell'impresa predisponente sia una persona fisica che acquisti il bene o usufruisca del servizio per scopi di consumo personale. La differenza fondamentale risulta essere pertanto la seguente.
La novella di cui agli artt. 1469-bis e seguenti, prevedendo altresì l'esperibilità dell'azione inibitoria come strumento di tutela preventiva concesso a colui che sta per essere leso, attiene ad un controllo sullo
specifico contenuto dei contratti standard; gli artt. 1341-1342 c.c., invece, disciplinano in via generale la formazione degli stessi, delineando essenzialmente i requisiti minimi che questi devono possedere per essere
considerati validi. Si può quindi desumere che la disciplina approntata dagli artt. 1341-1342 c.c. riguardi le condizioni generali di contratto da un punto di vista più che altro formale. Occorre osservare inoltre che fra i due gruppi normativi intercorre un rapporto bilaterale di specialità, per cui, se da un lato è la vecchia
disciplina ad essere considerata speciale rispetto alla nuova, perché riferita solo alle condizioni generali di contratto senza limitazioni per i soggetti del rapporto, anche la nuova disciplina è da considerarsi speciale rispetto alla vecchia perché riguarda solo i contratti stipulati tra un imprenditore e un consumatore. Ritengo peraltro che, se il legislatore avesse ritenuto prevalente una disciplina rispetto all'altra, avrebbe quanto meno
provveduto ad abrogare quella ritenuta meno completa. Un'altra teoria alternativamente sostiene che l'art. 1341 c.c., nel momento in cui prevede per l'efficacia delle clausole la specifica approvazione delle condizioni che limitano la responsabilità del proponente, rappresenta un criterio di applicabilità degli artt. 1469-bis e
seguenti. Infatti, secondo l'art. 1341 c.c., una volta specificamente sottoscritte, le clausole sono efficaci, e ciò in dipendenza del fatto che la presunzione di onerosità viene eliminata dal meccanismo di conoscibilità costituito dalla specifica sottoscrizione: la successiva concreta possibilità di vessazioneè invece esclusa solo dal fatto che detta clausola sia stata oggetto di apposita trattativa, così come stabilito all'art. 1469-ter, comma 4 c.c. E' qui pertanto che la nuova disciplina entra in gioco, poiché è ad essa che spetta il compito di accertare se la clausola che si presume vessatoria perché non negoziata, lo sia effettivamente.
Le presunzioni di clausole con contenuto vessatorio ipotizzate all'elenco fornito dall'art. 1469-bis, comma 3 c.c., integrano dunque quelle contenute nell'art. 1341 c.c., dato che con la specifica approvazione è
garantita l'efficacia, non anche l'accettazione sostanziale, che dipende dalla negoziazione. Secondo la mia personale tesi, invece, le differenze operative delle norme in esame, risultano dal tenore letterale delle stesse, innanzi tutto nel momento in cui si presumono applicabili ai contratti standard individuali, conclusi anche mediante moduli o formulari, gli art. 1341-1342 c.c.; gli art. 1469-bis c.c. e seguenti risulterebbero invece applicabili ai contratti, conclusi esclusivamente tra un professionista e un consumatore. Ciò perché nella stesura degli art. 1341-1342 c.c. il legislatore non ha altrimenti specificato, ritenendo sufficiente la generale disciplina dettata e non potendo prevedere nel 1942 gli sviluppi a lungo termine del mercato. Si è infatti accorto della necessità della predetta specificazione e dell'importanza di una completa disciplina solo successivamente, spinto dalle iniziative dell'Unione Europea e a seguito del forte allargamento del
mercato e del settore imprenditoriale, provvedendo ad elaborare una normativa apposita introdotta nell’ordinamento con il capo XIV-bis c.c. Ritengo inoltre che i requisiti dell'art. 1341 c.c. regolino semplicemente il procedimento attraverso cui determinate clausole entrano a far parte del rapporto contrattuale e si riferiscono perciò alla fase di formazione di un contratto, imponendo in linea generale la specifica sottoscrizione a fondamento dell'efficacia delle clausole restrittive della responsabilità del
proponente. La novella sulle clausole abusive nei contratti con i consumatori, invece, sostengo faccia riferimento ad un momento successivo e presupponga un contratto già definito. A dimostrazione di ciò è innanzi tutto il fatto che a norma dell'art. 1469- ter c.c., il controllo sulla vessatorietà delle clausole è svolto "facendo riferimento alle circostanze esistenti al momento della sua conclusione ed alle altre clausole del contratto". In secondo luogo è da sottolineare che l'art. 25 l. 52/96 ha introdotto anche l'istituto dell'azione inibitoria, da promuoversi in via preventiva e contro condizioni generali non ancora inserite in determinati contratti, proprio per contrastare la diffusione delle clausole abusive nel momento del passaggio dalla fase di redazione dei contratti standard al momento della loro inserzione nei contratti individuali.

2. Accertamento della vessatorietà delle clausole e onere probatorio

Nel giudizio instaurato per inibire ad un professionista l'uso di clausole abusive nei contratti per adesione, l'accertamento della vessatorietà delle clausole stesse costituisce il giudizio preliminare che il giudice deve
esprimere. Oltre alla verifica dell’appartenenza all’elenco delle clausole sospette di cui all’art. 1469-ter c.c., i criteri strumentali attraverso i quali è valutata l'abusività di una clausola sono fondamentalmente quello della "buona fede" e quello del "significativo squilibrio". A norma dell'art. 1469-bis c.c., infatti, si considerano vessatorie le clausole che, malgrado la buona fede, determinano un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto. Nel corso del decennio ormai compiuto dall'introduzione della novella
sulle clausole abusive nei contratti con i consumatori, debbo constatare la formazione di diverse correnti dottrinali nate intorno all'interpretazione del principio della buona fede. Infatti, il "malgrado la buona fede", viene da alcuni concepito in termini di buona fede soggettiva, cioè viene riferito ad un comportamento del
predisponente non viziato da dolo generico e tuttavia tale da aver dato vita ad una clausola abusiva.
Secondo un'altra corrente, da me condivisa, affinchè una clausola sia vessatoria non rileva lo stato psicologico del predisponente, che può anche essere in buona fede al momento della formazione del contratto, ma merita attenzione il solo profilo contenutistico dello squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dallo stesso contratto: l’inciso "malgrado la buona fede" non va tradotto in "malgrado la
presenza della buona fede", ma indica solo che il significativo squilibrio, inteso oggettivamente come sproporzione dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto, risulti contrastante con il dovere di lealtà e
correttezza nella contrattazione. In buona sostanza, dunque, la sproporzione cui da vita la presenza di
clausole vessatorie in un caso di specie si contrappone al principio della buona fede considerato astrattamente. Tuttavia, la giurisprudenza si è più volte pronunciata denunciando l'impossibilità di utilizzare il criterio della buona fede oggettiva nell'azione inibitoria preventiva. Basti un esempio dato dalla sentenza del Tribunale di Torino del 22 settembre 200011, nella quale si legge che "per quanto concerne il criterio della buona fede, che in questa materia riveste i caratteri della buona fede oggettiva, cioè di reciproca lealtà e
correttezza dei contraenti in ordine a tutte le circostanze inerenti le trattative, lo stesso non pare utilizzabile quando viene utilizzata l'azione inibitoria preventiva, dove per definizione sono impugnate delle condizioni generali di contratto solo potenzialmente in grado di essere inserite in singoli contratti individuali"
Altrettanto delicato è il secondo criterio di valutazione dell’abusività delle clausole, quello del significativo squilibrio. L'art. 1469-bis, 1° comma c.c. fa espressamente riferimento ad uno “squilibrio dei diritti e degli obblighi tra le parti”, rimettendo al giudice, quindi, la sola valutazione delle posizioni giuridiche delle stesse e non il vantaggio o lo svantaggio economico loro derivante dal contratto. In buona sostanza, al giudice spetta, affinché peraltro possa ritenere applicabile al caso di specie il capo XIV-bis c.c., la valutazione circa la sola
posizione di “consumatore” ovvero di “professionista” occupata dalle parti e non l’equilibrio economico del contratto stesso. Ad ulteriore conferma di quanto assunto finora è l’art. 1469-ter, 2° comma c.c. che, conformemente a quanto sancito anche dall’art. 4 della direttiva 93/13, impone che “la verifica sulla vessatorietà non attiene alla determinazione dell'oggetto del contratto, né all'adeguatezza del corrispettivo dei beni e dei servizi, purché tali elementi siano individuati in modo chiaro e comprensibile”. Va da sé allora che il significativo squilibrio sia valutato con riguardo all'assetto giuridico e normativo del contratto, piuttosto che a quello economico voluto dalle parti. Alla luce di quanto affermato finora sorge però un altro problema.
L’art. 1469-sexies c.c., infatti, regola l’azione inibitoria dell’uso di condizioni generali di cui sia accertata la vessatorietà, e tale accertamento, ho accennato in precedenza, deve essere preliminare al giudizio di merito
e secondo i parametri appena descritti. Ebbene, se in base al disposto dell'art. 1469-ter c.c. l'abusività deve essere valutata “tenendo conto della natura del bene o del servizio oggetto del contratto e facendo riferimento alle circostanze esistenti al momento della sua conclusione”, in sintesi caso per caso, come possono essere utilizzati i criteri della buona fede e del significativo squilibrio nella valutazione della
vessatorietà di condizioni generali di un contratto oggetto di inibitoria ex art. 1469-sexies c.c.? Sotto un certo punto di vista, appariva più convincente la formulazione dell'art. 4 della direttiva 93/13, che implicitamente chiariva che i parametri da esso dettati per la valutazione di vessatorietà concernevano solo i singoli e concreti contratti già perfezionati. E' proprio una tale formulazione che fa difetto nella novella in esame: a logica la vessatorietà dovrebbe stimarsi attraverso gli stessi metodi tanto nelle azioni individuali-successive, tese all’invalidazione di un contratto, quanto nelle azioni inibitorie-preventive ex art. 1469-sexies c.c.. Il che però appare scarsamente convincente, alla luce della disciplina dettata dall'art. 1469-ter c.c., in ragione della valutazione caso per caso che la norma stessa impone ("facendo riferimento alle circostanze esistenti al
momento della conclusione del contratto"). A mio parere, l'unica possibilità lasciata all'interprete risulta pertanto essere quella di sanare il contrasto in via interpretativa: in sede di inibitoria verranno utilizzati i criteri della buona fede e del significativo squilibrio in senso astratto e sarà giudicata vessatoria la clausola che, considerata invece nel contesto di un singolo e determinato contratto, avrebbe potuto comportare un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto stesso, malgrado la buona fede.
In realtà, il disposto in base al quale la valutazione della vessatorietà delle clausole è effettuata tenendo conto delle circostanze esistenti al momento della loro conclusione, è ritenuto fondamentale, e anzi, è stato elevato dal legislatore, secondo alcuni autori,a vero e proprio elemento di valutazione della vessatorietà. Di contro, invece, a quanto stabiliva l’art. 3 della direttiva 93/13, che definiva l’assenza di negoziato individuale
presupposto per la successiva valutazione dello squilibrio. Con ciò, si fa dunque dipendere la vessatorietà, oltre che da qualcosa di intrinseco, come la buona fede ed il significativo squilibrio, anche da qualcosa di
estrinseco, qual è la negoziazione. Ed entrano qui in gioco, gli artt. 1469- ter, 4° e 5° comma c.c..
L’uno nel momento in cui semplicemente riconosce efficacia esimente alla prova della trattativa, l’altro nel momento in cui fa incombere l’onere della prova stessa in capo al predisponente il contratto, dunque nella
quasi totalità delle ipotesi, in capo al professionista. In buona sostanza, l’art. 1469-ter, 5° comma c.c. prevede che “nei contratti conclusi mediante la sottoscrizione di moduli o formulari, predisposti per disciplinare in maniera uniforme determinati rapporti contrattuali, incombe sul professionista predisponente l’onere di provare che le clausole, o gli elementi di clausola, siano stati oggetto di specifica trattativa con il consumatore”. Balza subito agli occhi, pertanto, la configurabilità dell’inversione del generale principio dell’onere probatorio sancito dall'art. 2697 c.c., secondo il quale chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento. Nel contesto di azione individuale promossa da un consumatore per ottenere la dichiarazione di invalidità di un contratto individuale concluso mediante l’utilizzo di moduli o formulari nulla quaestio: il principio dell’onere probatorio non subisce eccezioni. Ma, nel caso in esame, ovvero nell’azione inibitoria, risulta evidente che non è per nulla agevole, se non pressoché impossibile per il professionista, fornire la prova della trattativa. Questo perché, come già ribadito, l’azione inibitoria è generalmente promossa per impedire che entrino in circolazione nel mercato contratti
contenenti clausole vessatorie, cioè viene solitamente promossa prima che un contratto sia concluso.

3. Azione inibitoria ordinaria e azione inibitoria urgente.

Ho analizzato sino ad ora alcune caratteristiche generali dell’azione inibitoria ordinaria. Occorre ora prendere in esame anche le particolarità dell’azione inibitoria c.d. provvisoria, che il nostro ordinamento prevede all’art. 1469-sexies, comma 2 c.c., per i casi in cui ricorrano “giusti motivi di urgenza”, ai sensi degli artt. 669-bis e seguenti del c.p.c. Ebbene, pacifico è che l’inibitoria finale consista in una sentenza di merito, che mette fine ad un giudizio ordinario di cognizione, definisce la controversia insorta ed è idonea ad acquisire autorità di cosa giudicata sulle rispettive ragioni delle parti. Diversamente, l’azione inibitoria urgente si presenta anzitutto come un provvedimento interinale provvisorio, dotato unicamente di una funzione di tipo cautelare e destinato pertanto ad ovviare al pericolo di insoddisfazione del diritto nel tempo occorrente allo volgimento della tutela giurisdizionale ordinaria. Che l’azione inibitoria cautelare abbia tutti i requisiti per dare inizio ad un processo di cognizione risulta non soltanto dalla logica, ma anche e soprattutto dalla possibilità offerta dal secondo comma della norma in esame, che autorizza la concessione dell’inibitoria anche “ai sensi degli
artt. 669-bis c.p.c.”, ovvero ai sensi della disciplina sul rito cautelare, introdotta con l. 353/1990. L'art. 669-octies c.p.c. prevede, infatti, che l'ordinanza di accoglimento, ove la domanda sia stata proposta prima
dell'inizio della causa di merito, deve fissare un termine perentorio non superiore a trenta giorni per l'inizio del giudizio di merito, pena la perdita di efficacia del provvedimento stesso. Tuttavia, la l. 80/2005 di riforma del processo civile e di alcuni procedimenti speciali, tra i quali il procedimento cautelare, che dovrebbe
entrare in vigore il prossimo 15 marzo 2006, modifica radicalmente la disciplina prevedendo che le disposizioni di cui allo stesso art. 669-octies c.p.c. non si applicano “ai provvedimenti d’urgenza emessi ai sensi dell’art. 700 c.p.c. e agli altri provvedimenti cautelari idonei ad anticipare gli effetti della sentenza di merito, previsti dal codice civile o da leggi speciali, nonché ai provvedimenti emessi a seguito di denunzia di nuova opera o di danno temuto, ma ciascuna parte può iniziare il giudizio di merito". Ciò significa che, in seguito all’accoglimento di un ricorso presentato da un’associazione di consumatori per ottenere un provvedimento cautelare che inibisca ad un professionista l’uso di condizioni generali di contratto
abusive, non sarà più necessario entro trenta giorni instaurare il giudizio di merito: sarà eventualmente il professionista soccombente a dover presentare reclamo ai sensi dell’art. 669-terdecies c.p.c. entro quindici giorni dalla pronuncia del provvedimento in udienza o dalla comunicazione o dalla notificazione dello stesso.
Prendendo atto della nuova disciplina, ma evidenziando il fatto che non sia ancora entrata in vigore, mi limiterò alla disamina e alla comparazione dei due istituti, facendo riferimento alla disciplina ancora vigente.
Individuate, dunque, le definizioni dell'azione inibitoria ordinaria e dell'azione inibitoria cautelare, ci si deve domandare quale rapporto intercorra tra le due, cioè se si tratti di figure distinte o di due diverse
rappresentazioni di una medesima azione. Si potrebbe propendere per l’unità concettuale dei due provvedimenti, affermando che l’inibitoria provvisoria riveste le medesime caratteristiche dell’inibitoria finale sul piano dei presupposti sostanziali, del contenuto, della funzione, dell’ambito di applicazione e dei rapporti con le altre azioni. Effettivamente è di facile intuizione lo stretto legame processuale che intercorre fra i due istituti, poiché il provvedimento provvisorio, per ora, come ho in precedenza affermato, deve essere successivamente assorbito o caducato ad opera della sentenza definitiva di merito. Ancora, in questa prospettiva, opererebbe anche lo stesso rito cautelare, in quanto accentua la strumentalità di detti provvedimenti rispetto alla tutela ordinaria, istituendo una correlazione necessaria tra la fase sommaria e quella successiva a cognizione piena. Secondo un’altra concezione, al contrario, il tentativo di riunire sotto un
denominatore comune le ipotesi di inibitoria finale e quelle di inibitoria provvisoria, non terrebbe conto della profonda diversità strutturale e funzionale esistente tra la tutela cautelare e quella definitiva. I due istituti
sarebbero altresì differenti anche sotto il profilo contenutistico, e ciò per la maggiore ampiezza di contenuti che, rispetto all’inibitoria finale, può assumere l’inibitoria provvisoria. In sede di inibitoria cautelare, sarebbe
perciò possibile, non soltanto l’imposizione ad un soggetto di un non facere generico, ma anche la sospensione in toto (ancorché provvisoria) dell’esercizio di un diritto soggettivo di cui sia titolare il convenuto. L’Autore chiarisce che simile risultato non potrebbe essere raggiunto dalla sentenza inibitoria finale, poiché, in quanto tale, attuerebbe la caducazione definitiva della titolarità di un diritto ed, in realtà, non integrerebbe una fattispecie inibitoria, bensì un esempio della diversa tutela di tipo invalidante.
In verità, una sentenza inibitoria finale giudica il contenuto di clausole già predisposte da un professionista convenuto, non avendo, quindi, ulteriori effetti determinanti, prima di tutto sull'eventuale ulteriore svolgimento sostanziale dei rapporti fra le parti; in secondo luogo, sulla possibilità riconosciuta al professionista di esercitare un diritto, che nella fattispecieè quello di svolgere la propria attività concludendo contratti. Attribuire, dunque, ad una sentenza inibitoria finale, effetti definitivi circa la caducazione della titolarità di un diritto, è forse eccessivo, se si pensa alla vera funzione della sentenza stessa: quella di accertare la vessatorietà di una clausola ed imporre all'autore dell'illecito un obbligo di astensione per il futuro dal compimento di quell'illecito. Non è comunque il caso di approfondire il discorso in questo ontesto:
saranno sicuramente meglio analizzati nel seguito il contenuto e gli effetti della sentenza inibitoria.
A mio avviso, se il linea teorica posso concordare sullo stretto legame processuale intercorrente tra inibitoria ordinaria e inibitoria urgente, dato che il procedimento cautelare deve sfociare nel rito ordinario, tuttavia
rilevo che i presupposti strutturali delle due azioni siano, comunque, differenti. E’ imposto, infatti, dal legislatore che l’inibitoria provvisoria sia da concedersi per “motivi di urgenza”, e solo per questi, presupponendo anche l'effettiva assenza dei contratti standard nel mercato, e quindi basandosi sul fatto le clausole delle condizioni generali di un contratto siano dannose solo potenzialmente. L’azione inibitoria ordinaria, invece, richiede dei presupposti diversi, ossia l’imminente lesione di un diritto del consumatore che sta per sottoscrivere o potrebbe sottoscrivere, di lì a poco, un contratto per adesione contenente clausole vessatorie. Abbandonando le contese dottrinali in merito alla migliore definizione delle differenze tra i due istituti, affronterei in modo più approfondito l’analisi delle caratteristiche fondamentali dell’azione inibitoria
provvisoria. Ho accennato in precedenza al fatto che il nostro ordinamento prevede all’art. 1469-sexies, comma 2° c.c., la possibilità che sia promossa l’azione in esame, qualora ricorrano giusti motivi di urgenza, ai sensi degli artt. 669-bis e seguenti c.p.c. In buona sostanza, dunque, un’associazione rappresentativa di
consumatori, di professionisti, o le camere di commercio, industria e artigianato, giustificati da motivi di urgenza, potrebbero ottenere un provvedimento che inibisca ad un professionista l’inserzione di clausole
vessatorie in contratti standard da quest’ultimo predisposti, ma non ancora messi in circolazione nel mercato e, dunque, non ancora perfezionati, seguendo l’iter previsto dal legislatore per la concessione di
provvedimenti cautelari. Nonostante la chiara formulazione normativa, taluno sostiene che, già
da una prima lettura della norma nascano i primi equivoci, poiché, in realtà, la disposizione non implica che l’inibitoria in esame possa essere chiesta sempre e soltanto in base alle norme sui procedimenti cautelari.
La norma in realtà, secondo questo Autore, andrebbe intesa nel senso che, accanto all’inibitoria definitiva, l’ordinamento ammette, se ricorrono certi presupposti, un’inibitoria cautelare, sottoposta ad un successivo
giudizio di merito, come accade anche in altri campi. (Si vedano, ad esempio le svariate applicazioni dell’art. 700 c.p.c). Per meglio comprendere le potenzialità dell’inibitoria urgente, ritengo opportuno soffermarmi brevemente sull’analisi del procedimento cautelare in generale, contemplato, come detto, dagli artt. 669-bis e
seguenti c.p.c. Quanto alla forma, esso va proposto con ricorso depositato nella cancelleria del giudice competente a conoscere la causa nel merito; quest’ultimo, sentite le parti, procede agli atti di istruzione che ritiene opportuni e indispensabili e, ai fini del provvedimento richiesto, accoglie o rigetta la domanda.
Conditio sine qua non dell’efficacia del provvedimento, finché non entrerà in vigore la nuova disciplina, è la promozione del giudizio di merito entro trenta giorni dalla pronuncia o dalla comunicazione dell’ordinanza che accoglie il ricorso. Infine, quanto ai presupposti essenziali per la concessione di detto provvedimento, l’art. 1469-sexies, 2° comma c.c. richiede la sussistenza di un quid pluris simboleggiato dall’inciso “giusti motivi d’urgenza”. E questi “giusti motivi di urgenza” vanno valutati in base al fumus boni iuris e al
periculum in mora. Il primo presupposto letteralmente significa “parvenza del buon diritto” e
si concretizza in un requisito necessario per ottenere la pronuncia di un determinato provvedimento del giudice e consiste perciò nella possibilità che esista in concreto quel diritto vantato. Nella fattispecie, si materializza nella pacifica evidenza che il ricorso al giudice vada a buon fine a fronte di quei “giusti motivi” di urgenza addotti dal ricorrente. Il periculum in mora, invece, letteralmente significa “pericolo nel ritardo” ed
è anche questo un requisito necessario ed essenziale per ottenere dal giudice un provvedimento cautelare. Il giudice, infatti, deve valutare se esistono delle circostanze di fatto che diano motivo di temere che il
ritardo possa provocare un danno ingiusto. Ebbene, vedrò in seguito all’analisi di alcune recenti ordinanze come, proprio l’individuazione di questi presupposti e quindi dei giusti motivi d’urgenza, costituiscono il punctum dolens dell’esperibilità dell’azione in esame, o meglio della concessione dei provvedimenti richiesti attraverso quest’istituto. Per ora mi limito all’identificazione del contenuto da attribuirsi all’espressione normativa “gravi motivi d’urgenza”, segnalando la presenza delle solite, diametralmente opposte, correnti dottrinali che, richiamandosi alle condizioni previste per la concessione dei provvedimenti d’urgenza di cui all’art. 700 c.p.c., ritengono o meno i giusti motivi d’urgenza paragonabili, quando non identificabili, con il
pericolo di un pregiudizio grave ed irreparabile di cui allo stesso art. 700 c.p.c. Da una prima concezioneè stato notato, innanzi tutto, come il presupposto dell’urgenza, risulti essere più lato e generico, oltre che
diverso, dal “pericolo di pregiudizio imminente e irreparabile” che l’art. 700 c.p.c. richiede. A tal proposito, infatti, alcuni autori sostengono che la tutela cautelare, cui tende l’azione inibitoria provvisoria, sia
applicazione particolare dei principi enunciati dall’art. 700 c.p.c., poiché risulta evidente un’anticipazione potenzialmente totale della tutela. E tale totalità è indispensabile ogni qualvolta non si possano assicurare
altrimenti gli effetti della decisione di merito. Sostenendo che, per il fumus boni iuris, le regole applicabili siano le stesse dei provvedimenti d’urgenza di cui all’art. 700 c.p.c., questi Autori rilevano come, per il periculum in mora, la formula “giusti motivi d’urgenza”, in luogo del riferimento dell’art. 700 c.p.c. al “pregiudizio grave e irreparabile”, sembrano dare al giudice della cautela una discrezionalità più ampia e favorevole all’attore. Secondo l’accennata impostazione dottrinale, infatti, il parametro al quale
occorre riferirsi per valutare i predetti giusti motivi è rappresentato dall’interesse collettivo, dunque dal gran numero di consumatori che potrebbero essere lesi, che si configura come diritto assoluto in sé
tutelabile anche in via d’urgenza. Aggiungo solo che, in verità, la giurisprudenza si è completamente discostata da una siffatta impostazione, rigettando i ricorsi promossi in via cautelare da alcune
associazioni di consumatori perché, in sintesi, ha individuato il periculum in mora nella essenzialità del bene o servizio oggetto del contratto e non in base ad un criterio quantitativo, come quello della precitata entità degli interessati. Ebbene, tesa all’individuazione di una formula che badasse alla tutela dell’interesse collettivo, questa corrente dottrinale ha avanzato una interpretazione correttiva dell’art. 1469-sexies, secondo comma c.c., Tribunale di Torino, ord. 4 ottobre 1996, ord. 16 agosto 1996, 14 agosto 1996, sent.
16 aprile 1999 delineando un periculum in mora in re ipsa, dunque insito nello stesso fenomeno che la norma è chiamata a regolare e la cui esistenza è già stata valutata positivamente dal legislatore, attraverso la tipizzazione di una autonoma misura cautelare. Il procedimento in questione verrebbe così assimilato a quei
procedimenti cautelari nei quali il legislatore consente che il giudice emani un provvedimento provvisorio prescindendo da qualsiasi indagine circa l’esistenza del requisito del periculum in mora, poiché è lo stesso legislatore che ha valutato l’esistenza di un periculum, cioè l’opportunità della concessione della tutela urgente. Nell’applicazione pratica di questa interpretazione il giudice dovrà, emanando un provvedimento inibitorio, valutare non il periculum, ma il fumus boni iuris: sarà l’accertamento di tale elemento che potrà giustificare il ricorso ad un procedimento urgente. Altra impostazione dottrinale, invece, ritiene che un’interpretazione come quella esposta fin’ora sia in contrasto con il testo dell’art. 1469- sexies c.c., che richiede la valutazione, non, come nell’art. 700 c.p.c., del rischio di un “pregiudizio imminente e irreparabile”, ma di qualcosa di meno, come sono manifestamente i “motivi d’urgenza”. Il periculum in mora non è in re ipsa, e pertanto già valutato positivamente dal legislatore. Se così fosse, di fatto, potrebbero esistere ipotesi di ricorsi d’urgenza promossi da associazioni di consumatori rivolti contro comportamenti contrattuali di professionisti che non sono in grado di arrecare alcuna significativa lesione, né attuale, né potenziale, agli interessi di tutti i consumatori. Il che certo non significa che questi comportamenti non siano in grado di infiggere pregiudizi anche significativi ad interessi dei singoli consumatori, ma semplicemente che in questi casi nonè giustificato l’intervento preventivo e generalizzato consentito dall’inibitoria ex art. 1469-sexies c.c. Al contrario, è sufficiente a garantire tutela al consumatore l’ordinario intervento ex post, rivolto all’ottenimento della dichiarazione di inefficacia, ed eventualmente del risarcimento del danno.
L’impostazione in esame, sostiene inoltre che, il discrimine tra i casi in cui l’inibitoria deve essere o non deve essere concessa, e tra i casi in cui l’inibitoria deve essere o non deve essere concessa in via d’urgenza, va
identificato in base alla natura di azione collettiva propria dell’inibitoria, come si trattasse di una class action all’italiana, in cui il giudice è chiamato a decidere se determinate prassi contrattuali possano arrecare danno ai
consumatori come categoria, ovvero se esista il rischio che tale danno sia subito dai consumatori come categoria, e se tale rischio sia intenso al punto da giustificare una tutela in via cautelare. Per meglio comprendere, mi sia concesso a questo punto aprire una breve parentesi sull’istituto processuale della class action, molto in uso negli Stati Uniti. Attraverso tale tipo di azione, pressoché sconosciuta alla tradizione
giuridica degli ordinamenti continentali europei, è consentito tutelare nel medesimo giudizio una molteplicità di situazioni soggettive distinte, ma tra loro omogenee. In altre parole, legittimato attivo è qualunque singolo
soggetto, purché appartenga alla “categoria” dei consumatori. Tale modello, indubbiamente, permette di raggiungere tanto una generale finalità di dissuasione e di deterrenza dal compimento di illeciti, quanto di
realizzare un’efficace gestione collettiva di diritti di natura individuale. Tuttavia, ritengo che detto strumento sia concettualmente diverso dalle azioni di interesse collettivo, ben note ai sistemi continentali europei, a
contenuto inibitorio o ripristinatorio, nelle quali l’interesse collettivo, pur risultando da una pluralità di interessi individuali, non ne rappresenta la mera sommatoria e la posizione del singolo è tutelata in quanto
condivisa da più soggetti. La difficoltà di circolazione dello strumento della class action al di fuori degli Stati Uniti, è sostenuta anche con altre motivazioni. In buona sostanza, ritengo che la lontananza concettuale e strutturale tra azione ex art. 1469-sexies e class action, sia abissale in quanto la legittimazione attiva nell’inibitoria non è attribuita ad un qualsiasi titolare del diritto asseritamene leso, ma circoscritta ai soli soggetti menzionati nella norma, cioè le associazioni di consumatori, di professionisti e le camere di commercio. Chiudo la breve digressione tornando al contenuto della formula “gravi motivi d’urgenza” che la tesi della class action all’italiana sostiene di aver individuato. I fautori dell’originale istituto, ancorché tipico, come detto, degli ordinamenti di common law, sono ispirati da un criterio che definirei quantitativo, posto che giustificano la loro posizione adducendo che il più significativo indice della capacità lesiva di un contratto standard nei confronti dei consumatori non può che ritrovarsi nel numero di consumatori che sono esposti al rischio di sottoscrivere quel contratto. In altre parole, questi Autori ritengono che, se un grandissimo numero di consumatori sottoscriverà il contratto, in assenza dell’inibitoria, la capacità lesiva della fattispecie nei confronti della categoria dei consumatori si spiegherà al massimo grado e, in conseguenza, i soggetti
danneggiati andranno, o potrebbero andare, a cercare ristoro in via individuale. Ed è proprio simile esito che l’inibitoria collettiva vuole evitare: questa dottrina, allora, rileva che sarà ancora il criterio numerico a
fornire la migliore guida per valutare la necessità o meno della tutela cautelare, il cui giusto motivo d’urgenza si concretizzerà nella quantità di consumatori potenzialmente danneggiati.

3. 1. La posizione della giurisprudenza in materia di azione inibitoria urgente: alcuni provvedimenti esemplificativi.

Conclusa la descrizione delle caratteristiche generali dell’azione inibitoria urgente, è giunto il momento di affrontare l’analisi delle reazioni della giurisprudenza dinanzi ad alcuni ricorsi ex art. 1469-sexies, comma 2 c.c. per la concessione dell’inibitoria provvisoria presentati da alcune associazioni di consumatori. A tal fine le ordinanze 4 ottobre 1996, 16 agosto 1996 e 14 agosto 1996 del Tribunale di Torino, sono emblematiche e molto interessanti, non solo perché offrono un’interpretazione originale della formula normativa “giusti motivi d’urgenza”, ma anche perché chiariscono con linearità l’espressione “utilizzazione del contratto da parte del professionista”. Nella fattispecie, il primo ricorso vedeva coinvolti la S.p.A. Rover Italia e una sua concessionaria, la S.r.l. Star Car, il secondo la S.p.A. Citroen Italia e una sua concessionaria, la S.r.l. Auto Jet, il terzo la S.p.A. Fiat Auto e una sua concessionaria, la S.r.l. Sogea, tutte resistenti contro il Comitato
Difesa dei Consumatori. Quest’ultimo aveva agito, invano, in via d’urgenza poiché fosse loro inibito dal Tribunale l’uso di varie clausole contenute nelle condizioni generali di contratto, dalle stesse utilizzate nella vendita delle automobili. Ebbene, i giusti motivi d’urgenza addotti nei ricorsi, succintamente, si basavano sul gran numero di consumatori italiani acquirenti le vetture delle case automobilistiche precitate ed in secondo luogo, sul fatto che un rimedio generale e preventivo, quale l’azione inibitoria, andava (e tutt’oggi va) ad incidere sui formulari contrattuali considerati in modo generale e astratto come fonte normativa privata ed indipendentemente dal loro impiego concreto e dalla stipulazione di contratti individuali con i singoli
consumatori. In altre parole, il Comitato Difesa dei Consumatori sosteneva che l’interesse tutelato dall’art. 1469-sexies c.c. fosse quello collettivo della generalità dei consumatori, affinché fossero preventivamente eliminate dal traffico giuridico le clausole abusive o vessatorie eventualmente contenute nei formulari, in modo da far sì che i consumatori si trovassero di fronte ad una contrattualistica conforme alla normativa sulle condizioni generali di contratto e che fosse, quindi, garantita la loro “libertà di contrattare a condizioni non vessatorie”. I ricorsi furono tutti rigettati. In buona sostanza, le motivazioni sulle quali il Tribunale di Torino fondò i propri convincimenti si basarono sulla mancanza di prove effettive circa l’esistenza dei giusti motivi d’urgenza che avrebbero dovuto reggere i ricorsi. Ma, andiamo con ordine. Per quanto riguarda la legittimazione attiva, nulla quaestio, anzitutto perché non fu oggetto di contestazione, ancorché nel 1996 non era ancora stata approntata una normativa che stabilisse i requisiti minimi di rappresentatività delle associazioni di consumatori. Normativa che, vedrò nel seguito, è stata definita nel 1998. Quanto alla legittimazione passiva, la stessa fu stabilito essere legislativamente riconosciuta in capo al professionista ed all’associazione di professionisti che utilizzano condizioni generali di contratto. Tuttavia, l’interpretazione dell’espressione “utilizzazione del contratto” da parte del professionista ha incontrato qualche difficoltà. Alcun dubbio che nel contesto andasse ricompresa la stipulazione di contratti individuali e la regolamentazione dei relativi rapporti sulla base delle condizioni già predisposte, ma, secondo il Tribunale, non era questo
l’unico significato da attribuirsi alla formula normativa, che poteva essere interpretata anche in senso più ampio. A tal fine, poiché le associazioni di professionisti di per sé non avevano mai concluso contratti con il
pubblico dei consumatori, essendo in genere create per altri motivi, i giudici torinesi ricorsero all’ausilio dell’art. 7 della direttiva 93/13, il quale stabiliva che “i mezzi adeguati per far cessare l’inserzione di clausole
abusive possono essere diretti contro professionisti o loro associazioni che utilizzano o raccomandano l’inserzione delle stesse clausole contrattuali generali”. Sottolineando che il legislatore italiano non avesse
consapevolmente inteso porsi in contrasto con quello comunitario, i giudici ritennero che l’omissione del riferimento alla “raccomandazione” fosse meramente accidentale e che ben si potesse far rientrare nel
concetto di utilizzazione ciò che, in pratica, non è altro che un comportamento strettamente connesso e funzionale all’utilizzazione, perché volto ad assicurare l’effettiva applicazione delle condizioni generali predisposte dal “raccomandante” da parte di chi si trova direttamente a contrattare con i consumatori e, cioè, del “raccomandatario”. Pertanto, il professionista che attraverso il rapporto contrattuale con altri professionisti, veniva ad immettere i propri beni sul mercato predisponendo condizioni generali di contratto destinate a regolare i rapporti contrattuali con i consumatori, era legittimato passivo rispetto all’azione inibitoria. Secondariamente, è stato rilevato dal Tribunale di Torino che l’elemento della raccomandazione poteva estrinsecarsi anche in altro modo e con varia intensità, potendo dunque essere ravvisato ogni qualvolta il professionista di “primo grado” manifestasse a quello di “secondo grado” la sua volontà ed il proprio interesse a che questi applicasse condizioni contrattuali da lui predisposte. L’altra annosa problematica risolta brillantemente dai giudici torinesi con le tre ordinanze in esame, riguarda la definizione dei criteri di individuazione dei giusti motivi di urgenza, che giustificano la concessione di un provvedimento inibitorio urgente ex art. 1469-sexies, comma 2 c.c. Come evidenziato nelle motivazioni del rigetto dei ricorsi, il legislatore ha autonomamente regolato il requisito del periculum in mora richiedendo la
sussistenza, non già del pregiudizio imminente e irreparabile di cui all’art. 700 c.p.c., ma dei “giusti motivi di urgenza”, che possono essere inquadrati come “motivi che rendano necessaria una pronuncia in tempi
brevi”. Per quanto riguarda la necessità della presenza del fumus boni iuris, secondo i giudici torinesi, è riassunta nello stesso aggettivo “giusti”, utilizzato dal legislatore. In altre parole, quest’ultimo requisito ricorre
ogni qualvolta sia ravvisabile la semplice possibilità che il diritto fatto valere possa in concreto esistere.
In via preliminare, trattandosi di un concetto indefinito e generico, comeè ’ il periculum in mora occorre tenere presente alcune considerazioni, alla luce delle quali i giudici torinesi hanno formato il loro convincimento. In primo luogo, vero è che i giudizi promossi dal Comitato Difesa dei Consumatori vertono sostanzialmente su di un modulo contrattuale e sull’accertamento della abusività delle clausole in esso contenute, considerate in modo astratto. Ancora, le condizioni generali di contratto sono strutturalmente rivolte nei confronti del pubblico ed istituzionalmente destinate a regolare il maggior numero di rapporti contrattuali individuali, avendo ad oggetto beni di largo consumo. In considerazione di ciò, è, a mio parere, più che opportuna la decisione formalizzata nelle ordinanze di rigetto. Le ragioni dell’urgenza, infatti, non possono essere individuate né nel semplice pericolo che vengano stipulati contratti individuali contenenti
clausole abusive, né nel loro numero, né nell’entità dell’attività imprenditoriale del professionista: questi elementi, come è evidenziato anche dal Tribunale, sono tipici e strutturali della materia in questione e
non possono di per sé integrare quel quid pluris richiesto dall’art. 1469- sexies, comma 2 c.c. A ciò si aggiunga solo che, se si ritenessero sufficienti le giustificazioni addotte a sostegno dei ricorsi dal Comitato Difesa dei Consumatori, l’azione inibitoria urgente si configurerebbe sempre, comportando l’abrogazione della prima parte della precitata norma e la coincidenza tra le due azioni, chiaramente contrapposte, invece, dal legislatore. Le conclusioni appena esposte trovano fondamento anche in un altro ordine di considerazioni.
Indubbio è che tutte le azioni, e anche quella oggetto d’esame, richiedano la sussistenza dell’interesse ad agire a norma dell’art. 100 c.p.c. Ebbene, a mente della struttura e dell’oggetto dei giudizi promossi in via
d’urgenza dal Comitato, è chiaro che l’interesse ad agire ricorre soltanto quando le condizioni generali di contratto predisposte dal professionista, siano da questi utilizzate per regolare rapporti con gli acquirenti, pur a prescindere dalla concreta stipulazione di contratti individuali. E’ chiaro allora che, il fatto che siano state predisposte delle condizioni generali di contratto e che il professionista intenda utilizzarle, con probabile
stipulazione di futuri contratti, attiene sicuramente alla sussistenza dell’interesse ad agire ed in difetto di tali presupposti non sarebbe proponibile nemmeno l’inibitoria in via ordinaria. E’ di facile intuizione, dunque, che l’ipotetico criterio individuato genericamente dal ricorrente, costituito dall’imminenza dell’utilizzo del
contratto standard da parte del professionista, appare del tutto vago e non suscettibile di una concreta applicazione e risulta necessaria, secondo i giudici, la definizione di un elemento ulteriore. Esclusa la rilevanza dell’attualità del comportamento del professionista e dell’elemento quantitativo, è determinante l’aspetto qualitativo inerente alla natura del bene oggetto di contrattazione, agli interessi che questo intende soddisfare, nonché alle conseguenti ripercussioni che potrebbero verificarsi nella sfera del consumatore in caso di un’intempestiva tutela. Sottolineo e metto in evidenza, peraltro, che questi parametri sono gli
stessi sui quali è improntato l’accertamento della vessatorietà delle clausole di cui all’art. 1469-ter c.c.
In buona sostanza, quel quid pluris richiesto dal giudice torinese affinchè fosse configurabile la necessità della tutela in via provvisoria nonché urgente, si concretizza nell’essenzialità del bene oggetto di ontrattazione
standardizzata, che deve pertanto essere primario. Inoltre, all’interno della categoria, è rinvenibile dalle motivazioni del rigetto, una sorta di sottocategoria meritevole di tutela in via urgente, attraverso ’applicazione di parametri conformi alla ratio del secondo comma dell’art. 1469-sexies c.c. Nelle fattispecie, trattandosi di un bene, l’automobile, né venduto in regime di monopolio, né correlato ad esigenze essenziali e primarie dei
consumatori, ben potendo il loro interesse alla locomozione e alla libera circolazione essere soddisfatto altrimenti, ha trovato giusta ragione il rigetto dei tre ricorsi. Una successiva ordinanza del Tribunale di Roma29, sempre in merito alla definizione dei criteri di individuazione del periculum in mora e del fumus
boni iuris nei ricorsi promossi in via d’urgenza, ha introdotto un nuovo orientamento, secondo il quale i giusti motivi d’urgenza andrebbero valutati con maggiore elasticità rispetto ai requisiti necessari per l’accoglimento dell’azione cautelare individuale. Il giudice, accogliendo il ricorso promosso da Federconsumatori e Adusbef, teso a far dichiarare la vessatorietà di una clausola delle condizioni generali di contratto di parcheggio non esattamente conoscibili dagli utenti, ha stabilito che “affinché l’azione collettiva affidata ad enti esponenziali e rappresentativi della collettività dei consumatori non sia del tutto svuotata di contenuto ed incisività, occorre disancorare il concetto stesso di periculum in mora dalla dimensione individualistica del conflitto e ragionare in termini di incidenza collettiva del comportamento contrattuale abusivo.” Ha pertanto osservato il giudice che, l’attribuzione della legittimazione ad agire ad enti esponenziali ha come obiettivo di impedire che le situazioni contrattuali non equilibrate e diffuse tra un elevato numero di soggetti, possano trovare una adeguata sanzione solo attraverso la valorizzazione, nella valutazione del periculum, della specificità dell’interesse collettivo leso dal comportamento del professionista attraverso la mancanza di corretta informazione, trasparenza etc. Le motivazioni dell’accoglimento del ricorso sono singolari anche sotto un altro aspetto: il giudice ha stabilito, infatti, che nella fattispecie ricorrono i giusti motivi di urgenza, posto “l’elevato numero dei destinatari, nonché la polverizzazione degli importi ingolarmente pretesi, tanto che sia presumibile che solo un limitato numero di consumatori attivi onerose procedure giudiziarie alfine di ottenere la ripetizione delle somme pagate.” Orbene, ritengo in parte opinabile siffatta impostazione, ancorché in linea di principio corretta. Sicuramente l’azione inibitoria è funzionale alla tutela di una molteplicità di soggetti: indubbio è che il singolo non promuova una causa per la restituzione di pochi spiccioli. Diverso e più semplice sarebbe se tanti “singoli” fossero supportati da un’istituzione idonea e a ciò preposta. E’ eccessivamente forzato, però, argomentare la propria decisione sull’esiguità della somma che il professionista dovrebbe ripetere ai consumatori-utenti: la predetta decisione, ritengo, alcuna novità apporti alla dibattuta interpretazione del capo XIV-bis c.c., tanto meno si fondi su presupposti tecnici di rilievo e rivoluzionari, anzi muova più che altro da basi, forse, ideologiche, e ciò potrebbe a lungo termine essere deleterio, soprattutto se si pensa all’estensione dei limiti soggettivi che una sentenza inibitoria passata in giudicato comporta. Non è però questa la sede per soffermarmi a lungo sull’estensione del giudicato di inibitoria.

4. La definizione della tutela dei consumatori con la l. 281/1998 e con il Codice del Consumo del 23/10/2005

Come accennato anche in precedenza, la disciplina dei contratti standard, introdotta con l. 52/1996, fin’ora esaminata, pur offrendo una tutela chiara e precisa alla molteplicità dei consumatori, si presenta un poco
debole nel momento in cui non delinea esattamente i limiti della legittimazione attiva ad agire, e comunque non predispone i criteri per l’identificazione delle associazioni rappresentative, cui le stesse dovrebbero conformarsi qualora volessero promuovere azione inibitoria. Sin dall’introduzione della novella, infatti, la dottrina ha avanzato perplessità in relazione alla formulazione dell’art. 1469-sexies c.c., considerando l’assenza dei predetti criteri di selezione necessari per l’accertamento e l’individuazione delle associazioni rappresentative legittimate a proporre azione inibitoria. Alcuni Autori,29 ad esempio, hanno notato come il legislatore abbia operato una scelta limitativa rispetto all’impostazione della direttiva comunitaria 93/13, che
consentiva agli Stati membri la possibilità di attribuire la legittimazione attiva “a persone o organizzazioni”, non chiarendo peraltro se si trattasse di un’alternativa o di un’attribuzione congiunta. Avendo il legislatore italiano omesso di operare il difficile contemperamento tra le opposte esigenze di selezione delle associazioni
rappresentative legittimate ad agire in giudizio e la necessità di valorizzare le diverse iniziative economiche e sociali dell’universo dell’associazionismo, la giurisprudenza ha dovuto autonomamente individuare i predetti criteri idonei a verificare giudizialmente la rappresentatività di ogni singola associazione. Ho accennato, infatti, nell’analisi delle tre ordinanze del 1996 del Tribunale di Torino che il giudice, in assenza di criteri certi, preso atto della necessità di ricorrere ad indici di rappresentatività, ha proceduto a verificare se, in considerazione delle finalità statutarie, del numero di iscritti, della rilevanza territoriale, il Comitato ricorrente dovesse essere effettivamente considerato rappresentativo dei consumatori. E a tale valutazione il giudice ha fatto seguire uno scontato esito positivo, essendo la rappresentatività del Comitato ricorrente documentalmente provata. Ma, la prova documentale, secondo il legislatore del 1998 era difficilmente raggiungibile, o quanto meno “scomodamente” raggiungibile. Per snellire almeno quest’ultimo adempimento processuale, rafforzare e valorizzare l’associazionismo e facilitare l’accesso alla giustizia da parte dei consumatori, proprio il 30 luglio 1998 è stata emanata la l. n. 281, il c.d. Statuto dei Consumatori. Oltre ad enunciare all’art. 1 i diritti fondamentali tra i quali il diritto alla salute, alla sicurezza ed alla qualità dei rodotti e dei servizi, all’informazione, alla correttezza nei rapporti contrattuali, la legge tenta di dare una soluzione ai precitati problemi attraverso il riconoscimento formale del fenomeno dell’associazionismo e la previsione di strumenti che rendano effettiva la tutela accordata dalle varie leggi preesistenti al consumatore considerato come categoria, attraverso l’attribuzione, alle associazioni rappresentative, della legittimazione all’azione giudiziaria e la valorizzazione di istanze anche diverse da quella tema del presente lavoro, come l’arbitrato o la conciliazione. La legge 281/98 disegna, infatti, un quadro normativo per l’azione degli enti collettivi che operano per la difesa del consumatore, ai quali riconosce una serie di diritti e per i quali stabilisce dei criteri ben precisi per la definizione della rappresentatività, qualificati come presupposto del loro riconoscimento.
All’art. 2, lett. b della novella sono pertanto specificamente intese come “associazioni di consumatori” quelle formazioni sociali aventi per scopo statutario esclusivo la tutela dei diritti dei consumatori e degli utenti.
Ad esse è riconosciuto soprattutto il diritto di agire in rappresentanza degli interessi collettivi dei consumatori nei procedimenti giudiziari o amministrativi e, novità molto interessante, anche per le eventuali
ripercussioni politiche, queste hanno il diritto di essere consultate dal Governo, dal Parlamento e dalle Regioni sulle iniziative che tocchino gli interessi dei consumatori/utenti, potendo altresì esercitare il diritto di
accesso ai documenti ed intervenire nei procedimenti amministrativi di cui alla l. 241/1990.30 Affinché tutti i menzionati diritti possano essere esercitati, le associazioni devono ottenere, in base al disposto dell’art. 5 l. 281, l’iscrizione in un apposito elenco conservato presso il Ministero dell’Industria, che ne certifichi la rappresentatività sul piano nazionale. Detto riconoscimento richiede che siano documentati all’organizzazione
alcuni requisiti attestanti la stabilità, quindi la serietà, ed il suo radicamento nel territorio. A tal fine, l’associazione deve essere stata costituita da almeno tre anni durante i quali deve aver svolto in modo continuativo, ed in base ad uno statuto che ne sancisca il carattere democratico, un’attività tesa alla tutela dei diritti dei consumatori; deve curare e mantenere aggiornato un elenco degli iscritti con l’indicazione delle quote versate; deve possedere un numero di iscritti non inferiore allo 0,5 per mille della popolazione nazionale ed essere presente in almeno cinque regioni o province autonome con un numero di iscritti non inferiore allo 0,2 per mille degli abitanti di ciascuna di esse; deve assicurare la trasparenza contabile e la moralità dei rappresentanti; da ultimo, ma non per importanza, non deve perseguire scopo di lucro.
E’ lampante come l’aspetto della rappresentatività e del conseguente riconoscimento costituisca un punto assai delicato, sul quale non mancano divergenze tra le varie associazioni, che ovviamente si trovano in concorrenza tra loro per ottenere l’ambita iscrizione nel registro. E’ di facile intuizione, ad esempio, la possibilità che si verifichino fenomeni di apparentamento fra associazioni “piccole”, o iniziative da parte di quelle maggiori, volte ad ottenere visibilità agli occhi delle istituzioni.Per maggiore completezza, si veda D. Min. 19/01/1999, n. 20, concernente le procedure per l’iscrizione all’elenco delle associazioni di consumatori e utenti rappresentative a livello nazionale. Ad esempio attraverso la moltiplicazione delle richieste di nibitoria nei confronti di controparti notorie Il potere più importante assegnato dalla legge in questione alle
associazioni riguarda, come detto, la possibilità di agire in giudizio in rappresentanza degli interessi collettivi dei consumatori. L’art. 3 della legge 281 disciplina, infatti, la legittimazione ad agire di queste associazioni riconosciute, che potranno, pertanto, chiedere al giudice di inibire gli atti e i comportamenti lesivi degli interessi degli utenti, adottare le misure idonee a correggere o eliminare gli effetti dannosi delle violazioni accertate, ordinare la pubblicazione del provvedimento su uno o più quotidiani a diffusione nazionale, nei casi in cui la pubblicità del provvedimento possa contribuire a correggere o eliminare gli effetti delle violazioni. Su quest’ultimo punto, è d’uopo aprire una breve digressione. L’art. 1469-sexies, comma 3, omettendo la previsione di qualsiasi misura coercitiva in caso di inottemperanza a sentenza inibitoria da parte del professionista, già prevedeva una sorta di risarcimento del danno patito dai consumatori, attraverso l’ordine di pubblicazione del provvedimento. Fino al 2002, come vedrò nel seguito, anno in cui è stata emanata la l. n. 39 che ha cautamente introdotto forme di coercizione, si sono susseguiti rilievi dottrinali e proposte tese a sopperire alla mancanza della previsione di dette misure coercitive, ad esempio, avanzando l’ipotesi dell’estensione ultra partes della sentenza, che avrebbe consentito ai singoli consumatori di avvalersi dello stesso giudicato nei loro rapporti con il professionista. Le proposte avanzate e la stessa previsione normativa, non trovano, però, il mio consenso: sostengo, infatti, che non sia raggiunto l’equilibrio tra
l’eventuale danno cui avrebbe potuto andare incontro la collettività dei consumatori in caso di immissione nel mercato di un contratto contenente clausole vessatorie e l’effettivo danno cui va incontro un’impresa, attraverso la pubblicazione di una sentenza inibitoria nei suoi confronti. Basti pensare alla pessima pubblicità subita da quest’ultima e l’effetto dannoso nei suoi riguardi è subito monetizzato e concretizzato. Trovo molto più lineare un altro tipo di proposta, non accolta almeno inizialmente e fino al 2002, avanzata durante una discussione al Senato di prevedere un risarcimento pecuniario, che il professionista soggetto ad inibitoria avrebbe dovuto versare in un apposito fondo a sostegno delle iniziative associazionistiche. Come più volte sottolineato, l’azione inibitoria risponde all’esigenza di evitare possibili conseguenze dannose, richiedendo pertanto rapidità ed efficienza. In ottemperanza a tali necessità, la legge 281 ha introdotto una snella
procedura, delineando la proposizione dell’inibitoria solo dopo che siano trascorsi 15 giorni da una diffida con la quale si richiede la cessazione del comportamento lesivo, e ciò allo scopo di favorire una possibile
negoziazione, oltre la previsione del tentativo di soluzione non contenziosa costituito dal ricorso all’apposita procedura di conciliazione presso le Camere di Commercio.34 Le associazioni possono infatti, prima
di ricorrere al giudice, introdurre la procedura di conciliazione innanzi la Camera di Commercio competente per territorio, che deve concludersi entro 60 giorni, o con il raggiungimento di un accordo, o con il
fallimento del tentativo: in caso di successo, verrà redatto un verbale di conciliazione sottoscritto dalle parti e dal rappresentante della Camera di Commercio che verrà depositato per l’omologazione nella cancelleria del
tribunale territorialmente competente e lo dichiarerà valido come titolo esecutivo. A fronte della normativa introdotta con la legge in esame, posso constatare come, nel corso degli ultimi anni, le associazioni di
consumatori rappresentative a livello nazionale presenti sul territorio italiano, attraverso la promozione dello strumento processuale dell’azione inibitoria, ma soprattutto attraverso le numerosissime consultazioni con
gli organi amministrativi, abbiano raggiunto un potere tale da essere in grado di influenzare la stessa amministrazione statale. Questo fatto può essere considerato positivo, se il potere esercitato viene
valutato come “mezzo riequilibrante” gli interessi dei consociati con gli interessi dei professionisti, anche perché è sempre corretto il dialogo qualora fruttuoso e promotore di iniziative che possono migliorare la
qualità della vita in generale. Da un’altra parte, però, l’eccessiva politicizzazione delle associazioni di
consumatori e degli enti ad esse collegati, leggasi numerosi sindacati, spesso fa loro perdere di vista quelli che sono gli effettivi interessi in gioco dei cittadini, comportando un utilizzo talvolta pretestuoso dei diritti-poteri esercitabili. Ritengo infatti, che parecchie delle iniziative intraprese da alcune associazioni di consumatori, esempio illuminante le manifestazioni in piazza, travalichino il perseguimento della tutela dei
consociati, per, anzi, far ottenere maggiore visibilità, forse personale, a chi “manovra” dall’alto dette iniziative. Tralasciando la mia posizione in merito, aggiungo solo che il 23 ottobre del corrente anno, a seguito di un complesso lavoro, è entrato in vigore il c.d. Codice del Consumo, che nulla di nuovo aggiunge alla legge 281/98 e alle leggi preesistenti, ma semplicemente raccoglie ordinatamente tutta la normativa in materia di tutela dei consumatori con l’intento di coordinare la disciplina italiana con i principi comunitari.

Capitolo III
1. Premessa.

Preso atto delle principali caratteristiche dell’azione inibitoria attraverso la disamina delle principali correnti dottrinali formatesi in seguito al recepimento della direttiva 93/13 e all’introduzione della l. 281/98, constatata la posizione della giurisprudenza in merito alla configurazione e ai limiti della promozione dell’azione inibitoria provvisoria, nel presente capitolo vengono affrontate le principali problematiche processuali che il giudice è tenuto a risolvere ai fini della decisione di una vertenza avente ad oggetto la domanda di un Ente rappresentativo contro un professionista, affinché venga inibito l’uso di clausole vessatorie in un contratto standard. Ho esaminato fino ad ora come le norme disciplinanti l’azione inibitoria abbiano posto dei dubbi e abbiano acceso interessanti dibattiti da un punto di vista generale e a livello interpretativo: non meno curiose sono le questioni di natura processuale che scaturiscono nel momento in cui l’azione stessa viene promossa e, dunque, da un punto di vista prettamente tecnico. Esaminerò, infatti, come la dottrina e la giurisprudenza hanno sottolineato l’importanza della (e hanno risolto la) questione
preliminare inerente la definizione della giurisdizione e della competenza del giudice decidente; affronterò la problematica della legittimazione attiva e soprattutto passiva ad agire degli attori e dei convenuti per analizzare poi il contenuto e gli effetti di una sentenza inibitoria nei confronti delle parti e dei terzi. Infine, affronterò la delicata questione dell’esperibilità di mezzi coercitivi in caso di inottemperanza a sentenza, introdotti solo dopo annosi confronti tra i tecnici del diritto.

2. Giurisdizione e competenza.

Il primo problema che si pone ad ogni giudice nell’affrontare la decisione di qualsiasi controversia riguarda lo stabilire la propria giurisdizione: non a caso essa è contemplata nel primo libro del Codice di Procedura Civile, specificamente all’art. 1, che stabilisce che “la giurisdizione civile, salvo speciali disposizioni di legge, è esercitata dai giudici ordinari secondo le norme del presente codice.” La giurisdizione civile, intesa come attività giurisdizionale, consiste fondamentalmente in quell’attività con la quale lo Stato esercita il
potere giurisdizionale, che viene in rilievo non in modo generico, ma come potere specifico di decidere le singole controversie o cause che in concreto vengono sottoposte ai giudici. E’ chiaro allora che la
funzione giurisdizionale spetta ai giudici ordinari considerati tutti insieme, salvo che la legge disponga altrimenti. Primo carattere del potere giurisdizionale è quello della generalità, ossia quel carattere nel quale lo stesso disposto dell’art. 102 Cost. si condensa e secondo cui il potere giurisdizionale dello Stato spetta di
regola ai giudici ordinari rispetto a tutte le controversie. Tale carattere della generalità viene ricondotto al principio dell’unità della giurisdizione, anche se è stato giustamente osservato che di unità della
giurisdizione, a fronte proprio degli artt. 1 c.p.c. e 102 Cost., può parlarsi nell’ambito della giurisdizione civile, poiché, ad esempio, anche la giurisdizione dei tribunali amministrativi in materia amministrativa si presenta altrettanto generale di quella del giudice ordinario in sede civile. E’ dunque possibile desumere una tripartizione della giurisdizione in civile, amministrativa e ovviamente penale. Il criterio di ordine generale per l’individuazione della giurisdizione civile, e non di meno della competenza, è dettato dall’art. 5 c.p.c., secondo cui queste si determinano con riguardo alle legge vigente e allo stato di fatto esistente al momento della proposizione della domanda, restando senza conseguenze gli eventuali mutamenti successivi, per i quali vi è da intendersi i mutamenti dello stato di fatto delle cose, estranei al rapporto sostanziale fatto valere.
In generale, dunque, nella domanda promossa da privati, associazioni di consumatori o singoli consumatori che siano, per ottenere tutela contro un professionista, di natura altrettanto privata, è indubbio che
la giurisdizione spetti all’autorità civile ordinaria, anche perché è noto che le questioni relative alla validità, efficacia ed esecuzione dei contratti di diritto privato sono devolute alla competenza del giudice ordinario.
Preso atto di quanto constatato finora, ai fini della promozione di azione inibitoria rimane aperta un’altra interessante problematica, affrontata diverse volte dalla giurisprudenza, concernente la ripartizione, in casi particolari, della giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo. E’ accaduto, infatti, che la domanda inibitoria avesse ad oggetto contratti stipulati con i consumatori da professionisti esercenti un
servizio di pubblico interesse, in forza di un rapporto di concessione amministrativa e previa approvazione del relativo regolamento contrattuale ad opera dell’autorità amministrativa concedente. Il nodo problematico riguardava, appunto, l’individuazione della competenza dell’organo decidente: in buona sostanza, se la
giurisdizione spettasse al giudice ordinario ovvero amministrativo. Per comprendere la posizione della giurisprudenza e citare esemplari pronunce, il Tribunale di Palermo, adito da un’associazione di
consumatori (Adiconsum), ha affrontato diverse vertenze concernenti le condizioni generali di contratto praticate da una società incaricata di gestire il servizio di trasporto marittimo sulla base di apposita
convenzione con il Ministero dei Trasporti e della Marina Mercantile e previa approvazione ministeriale del relativo regolamento contrattuale. In via preliminare, il Tribunale ha affrontato, risolto e correttamente
affermato la giurisdizione dell’Autorità giudiziaria ordinaria. Il principio di fondo, infatti, è che le condizioni generali di contratto destinate a regolamentare l’erogazione di servizi pubblici o di pubblico interesse sono comunque assoggettate alla cognizione del giudice ordinario, indipendentemente dalla circostanza che siano state predisposte, approvate, autorizzate, o comunque sottoposte a vincoli autorizzativi da parte della pubblica amministrazione. Torna allora utile richiamare nuovamente il principio in precedenza esaminato: qualora si tratti di questioni relative a rapporti iure privatorum, quand’anche il contratto sia stipulato dalla (o con l’intervento della) pubblica amministrazione, esse sono devolute alla competenza esclusiva del giudice ordinario. Ebbene, la posizione giuridica facente capo ad un soggetto che instaura rapporti con la Pubblica Amministrazione è di norma configurata non come diritto soggettivo, ma come interesse legittimo.L’interesse legittimo, per definizione, si verifica quando l’interesse di un soggetto determinato trova una tutela “riflessa” e in relazione al fatto che esso coincide con l’interesse generale dei consociati (c.d. interesse pubblico), che costituisce invece il vero oggetto della tutela diretta da parte della legge, nella disciplina delle modalità di esercizio dei poteri degli organi amministrativi. A norma dell’art. 2 l. 2248/1865 all. E, dunque, contro la Pubblica Amministrazione i diritti soggettivi possono essere fatti valere solo innanzi al giudice ordinario, gli
interessi legittimi innanzi al giudice amministrativo. A maggior ragione se si tratta di domanda avente ad oggetto un contratto iure privatorum, quand’anche stipulato dalla Pubblica Amministrazione stessa. La soluzione accolta dal Tribunale palermitano mostra la sua ineccepibilità anche in relazione allo spirito della normativa introdotta dal capo XIV-bis c.c. L’art. 1469-bis c.c., comma 2, infatti, stabilisce che il professionista è la persona fisica o giuridica, pubblica o privata, che, nel quadro della suaattività imprenditoriale o professionale, conclude un contratto con un consumatore. Da una lettura combinata degli artt. 1469-bis, comma 2, e 1469-sexies c.c. si è inevitabilmente condotti ad escludere la configurabilità di un
criterio di riparto della giurisdizione fondato sulla diversa qualità soggettiva, pubblica o privata, del professionista, e si deduce, quindi, la rimessione nelle mani del giudice ordinario della competenza ad
erogare la sanzione inibitoria. A maggior riprova della chiarezza dell’assunto è anche il comma secondo dell’art. 1469-sexies c.c., nel momento in cui incanala il procedimento per l’inibitoria in via d’urgenza sui binari del procedimento cautelare, con un rinvio espresso agli art. 669-bis e seguenti del c.p.c.. Tale rinvio implica che la cognizione sull’azione inibitoria ordinaria compete sempre al giudice ordinario, a meno di
non voler sfociare nella paradossale conclusione che la giurisdizione possa mutare a piacimento, a seconda che una medesima azione venga intentata in via ordinaria o in via cautelare. Assodato che non possa valere il dato soggettivo della qualificazione del convenuto quale soggetto pubblico, e tanto meno possa valere il
fine perseguito attraverso l’attività professionale esercitata quale interesse pubblico, ciò che effettivamente rileva ai fini dell’individuazione della giurisdizione, è unicamente il dato oggettivo dell’utilizzazione di condizioni generali di contratto nei rapporti instaurati con gli utenti, la cui ovvia natura spiccatamente privatistica rimanda sempre alla giurisdizione ordinaria. La brillante decisione del Tribunale palermitano merita attenzione anche per quanto riguarda la soluzione offerta al problema dell’accertamento della vessatorietà delle clausole di regolamenti contrattuali sottoposti ad autorizzazione amministrativa.
In sede di procedimento inibitorio, i concessionari di pubblici servizi, infatti, non potranno sottrarsi al controllo sulla vessatorietà demandato al giudice ordinario invocando la competenza dei Tribunali
Amministrativi Regionali sui i ricorsi contro atti e provvedimenti relativi a rapporti di concessione di beni e servizi, nonostante l’art. 33 l. 80/98 abbia devoluto al giudice amministrativo la cognizione esclusiva delle controversie in materia di pubblici servizi. Una cosa è il rapporto interno di concessione fra autorità
amministrativa e concessionario, le cui vicende sono giustamente regolate da norme di diritto pubblico e perciò devolute alla competenza dei giudici amministrativi; altra cosa è il rapporto esterno fra concessionario del pubblico servizio e consumatore, le cui vicende strettamente privatistiche seguono norme di diritto privato e la giurisdizione civile. E il provvedimento amministrativo di predisposizione non vale
certamente a snaturare il carattere negoziale del rapporto instaurato con il consumatore, che inevitabilmente investe posizioni di diritto soggettivo. Peraltro, una recente sentenza della Corte Costituzionale38 ha
contribuito a chiarire il criterio del riparto della giurisdizione, dichiarando parzialmente illegittimo, per contrasto con gli artt. 24, 25, 100, 102, 103, 111 113 Cost. , l’art. 33, commi primo e secondo, della
l. 80/98, come sostituito dall’art. 7 l. 205/2000, nella parte in cui prevede, al comma primo, che sono devolute alla giurisdizione 38 Corte Cost. 6 luglio 2004 sent. N. 204, pubb. in G.U. 14 luglio 2004 esclusiva del giudice amministrativo “tutte le controversie in materia di pubblici servizi, ivi compresi quelli” anziché “le controversie in materia di pubblici servizi relative a concessioni di pubblici servizi, escluse quelle concernenti indennità, canoni ed altri corrispettivi, ovvero relative a provvedimenti adottati dalla Pubblica
Amministrazione o dal gestore di pubblico servizio in un procedimento amministrativo disciplinato dalla l. 241/90, ovvero ancora relative all’affidamento di un pubblico servizio, ed alla vigilanza e controllo nei confronti del gestore, nonché”. Ha poi dichiarato l’illegittimità costituzionale del secondo comma, che individuava esemplificamente controversie nelle quali può essere del tutto assente ogni profilo riconducibile alla Pubblica Amministrazione come autorità. La Corte Costituzionale ha motivato la propria decisione
adducendo che “l’art. 103 Cost. non ha conferito al legislatore ordinario una assoluta ed incondizionata discrezionalità nell’attribuzione al giudice amministrativo di materie devolute alla sua giurisdizione esclusiva, ma gli ha conferito il potere di indicare particolari materie nelle quali la tutela nei confronti della Pubblica
Amministrazione investe anche diritti soggettivi: tali materie, tuttavia, devono essere particolari rispetto a quelle devolute alla giurisdizione generale di legittimità, nel senso che devono partecipare della loro
medesima natura, che è contrassegnata dalla circostanza che la Pubblica Amministrazione agisce come autorità nei confronti della quale è accordata tutela al cittadino davanti al giudice amministrativo.
Va in conseguenza escluso che sia la mera partecipazione della Pubblica Amministrazione al giudizio sia il generico coinvolgimento di un pubblico interesse nella controversia siano sufficienti a radicare la giurisdizione del giudice amministrativo.” Anche la dottrina,39 prima della predetta sentenza, si era espressa in
merito, sottolineando, però, che in materia di erogazione di pubblici servizi, il provvedimento amministrativo di predisposizione o approvazione di condizioni generali abusive sarebbe, in realtà, viziato da illegittimità per violazione di legge ovvero eccesso di potere, rilevando quindi che, in quanto tale, il provvedimento viziato sarebbe suscettibile di essere sì disapplicato dal giudice ordinario, ma sarebbe anche autonomamente impugnabile dinanzi al giudice amministrativo ad iniziativa di una associazione di consumatori. Risolto affermativamente il quesito sulla giurisdizione, ossia accertato il potere dei giudici ordinari di decidere sui procedimenti inibitori, occorre stabilire a quale tra i diversi giudici spetti in concreto il potere di decidere quella specifica causa. In buona sostanza, si tratta di definire la questione della competenza, cioè della distribuzione del potere di decidere tra i diversi giudici ordinari. In questo senso va intesa la definizione della competenza, come quella frazione di giurisdizione che in concreto spetta ad un determinato giudice rispetto ad una determinata causa. Nel nostro ordinamento giudiziario esistono, infatti, diversi tipi di giudici, da un lato (giudice di pace, tribunale in composizione monocratica o collegiale), e tanti giudici dello stesso tipo e distribuiti sul territorio nazionale, dall’altro, che danno luogo a due diversi problemi di distribuzione della competenza. Premesso che anche la competenza è determinata in base all’art. 5 c.p.c. con riguardo alla legge vigente e allo stato di fatto esistente al momento della proposizione della domanda, il problema della
distribuzione della competenza tra giudici di diverso tipo (giudice di pace o tribunale, ad esempio) è risolto dalla legge in base a due diversi criteri: quello della materia, ovvero in riferimento alla natura o al tipo
di diritto sul quale si controverte, e quello del valore economico dell’oggetto della controversia. Nel contesto, è dallo stesso Codice di Procedura Civile stabilito che determinate materie e fino ad un determinato valore siano di competenza del giudice di pace, le restanti altre materie siano di competenza del tribunale in composizione monocratica o collegiale. Per quanto riguarda, invece, il problema della distribuzione della
competenza tra i giudici dello stesso tipo dislocati nelle diverse circoscrizioni territoriali presenti nello Stato italiano, il Codice di Procedura Civile dispone un solo criterio, che è quello della competenza per territorio. In buona sostanza e in linea di principio, il nostro legislatore ha risolto la questione ispirandosi al criterio dei
soggetti della controversia, stabilendo all’art. 18 e 19 c.p.c. i c.d. fori generali e prevedendo che, “salvo che la legge disponga altrimenti,è competente il giudice del luogo in cui il convenuto ha la residenza o il
domicilio….” Tale regola, come spesso accade, è temperata da un numero considerevole di eccezioni prevalenti ed ispirate a criteri oggettivi. Si ha, infatti, la competenza del giudice del luogo in cui è sorta
l’obbligazione, per le cause relative a diritti di obbligazione (art. 20 c.p.c.); la competenza del giudice del luogo dove ha sede l’avvocatura dello Stato, nelle cause in cui una delle parti sia la Pubblica Amministrazione (art. 25 c.p.c.); la competenza del giudice del luogo in cui si trovi l’immobile, per le cause relative a diritti reali su beni immobili (art. 21 c.p.c.); etc. La determinazione della competenza di tali fori, c.d. speciali e
prevalenti rispetto il criterio del foro generale, si desume quindi, con riferimento al petitum e alla causa petendi, ovvero con riferimento alla domanda e alla ragione oggettiva che fonda la stessa. In sede di azione inibitoria, tra i diversi tipi di giudice, ovvero in linea verticale, indubbio è che tra giudice di pace e tribunale monocratico, sia competente in via esclusiva quest’ultimo ai sensi e per gli effetti dell’art. 9 c.p.c., cioè essendo indeterminabile il valore della causa. Per quanto riguarda, invece, la questione della determinazione della competenza in linea orizzontale, cioè tra i tribunali distribuiti su tutte le circoscrizioni presenti sul territorio nazionale, sembra opportuno ricorrere al criterio del foro generale delle persone fisiche (art. 18
c.p.c.) o giuridiche (art. 19 c.p.c.), e dunque sarà sempre competente il giudice nella cui circoscrizione ha il domicilio o la sede il professionista convenuto. Tuttavia, non manca chi ritiene più corretto, ai fini dell’individuazione del giudice competente per territorio, ricorrere al disposto dell’art. 20 c.p.c.,che disciplina il foro facoltativo per le cause relative a diritti di obbligazione e secondo il quale è competente anche il giudice del luogo in cui esse sono sorte o devono eseguirsi quelle dedotte in giudizio. Secondo il citato Autore, infatti, l’azione inibitoria riconosce l’esistenza di un obbligo di non facere e dà vita ad una obbligazione giudiziale, secondo la quale è competente proprio il giudice del luogo in cui tale obbligazione deve eseguirsi. La forzatura interpretativa balza subito all’evidenza, nel momento in cui potrebbe, in questo modo, essere riconosciuta una competenza plurima, dovendo l’obbligazione eseguirsi in tutti i luoghi in cui la clausola abusiva è stata usata e non deve più esserlo. Preso atto che i criteri di individuazione del foro competente per l’azione inibitoria siano quelli di cui agli artt. 18 e 19 c.p.c., debbo considerare che l’art. 1469-bis , comma 3 n. 19 prevede la presunzione di vessatorietà delle clausole che hanno per oggetto o effetto di stabilire come sede del foro competente sulle controversie località diversa da quella di residenza o domicilio elettivo del consumatore. Detta previsione normativa è molto importante, non tanto per l’esperibilità dell’azione inibitoria, ma in caso di azione del singolo consumatore che si veda leso dal comportamento di un professionista. Ebbene, nel contesto debbo segnalare la profonda divisione formatasi
in seno alla dottrina. Una corrente, precorrendo l’attuale orientamento fatto proprio dalla giurisprudenza,ha desunto dall’art. 1469-bis n. 19 l’introduzione di un foro esclusivo a vantaggio del consumatore, presupponendolo “parte debole” del rapporto contrattuale. Argomentandosi a contrario dal fatto che la norma avrebbe individuato come foro non vessatorio solo quello della residenza o del domicilio eletto del consumatore, ha peraltro escluso in assoluto la possibilità di accedere al foro facoltativo di cui all’art. 20 c.p.c. e constatato che la legge avrebbe, come detto, riconosciuto la competenza del foro di cui al n. 19 quale regola di valore generale che esclude ogni altra competenza concorrente Altra e diversa posizione46 è quella che, in base al dettato dell’art. 1469-ter, comma 3 c.c., che esclude la vessatorietà della clausola contrattuale che sia riproduttiva di disposizioni di legge, e dunque anche dell’art. 20 c.p.c., conferisce competenza ad un foro diverso da quello di residenza o domicilio eletto del consumatore. Tale impostazione parte dall’assunto normativo secondo cui non sono considerate vessatorie le clausole che riproducono disposizioni di
legge, per considerare che in virtù dell’art. 20 c.p.c. il professionista possa legittimamente inserire nel contratto delle clausole che, in ordine a controversie aventi ad oggetto diritti di obbligazione, contemplino
l’adizione dei fori facoltativi ivi previsti, senza che queste pattuizioni possano in alcun modo essere dichiarate abusive e quindi sanzionate di inefficacia. Posto che le ultime considerazioni esposte non costituiscano oggetto del presente lavoro, mi preme comunque palesare la mia posizione al riguardo, allineandomi con il secondo orientamento analizzato. Ho constatato, infatti, che la giurisprudenza ha configurato l’introduzione di un foro esclusivo del consumatore, considerandolo parte debole del rapporto contrattuale. Ebbene, non contesto il fatto che il legislatore abbia ritenuto opportuno approntare un grado di tutela molto ampio per il consumatore, ma semplicemente non condivido la suddetta presunzione di debolezza dell’aderenteconsumatore. Ritengo che, ad oggi e proprio in ragione della vasta produzione normativa in suo favore, il consumatore non sia da considerarsi parte debole, anzi e per di più, possa essere configurato
parte “forte” nella contrattazione con un professionista, libero di proporre clausole contrattuali che, sempre nei limiti della legalità, possano anche derogare alla competenza. Il nostro ordinamento, infatti, riconosce e affida non a caso efficacia esimente all’autorità privata: le parti di un rapporto contrattuale sono pertanto libere, tanto di accettare, quanto di negoziare, prima della perfezione, le clausole di un contratto.

3. Legittimazione attiva ed interesse ad agire.

La legittimazione ad agire è un presupposto processuale essenziale la cui sussistenza deve essere valutata dal giudice sulla base della domanda introduttiva del giudizio ed il cui difetto può essere rilevato in ogni stato e grado dello stesso giudizio. La legittimazione ad agire è dunque condizione necessaria dell’azione, intesa come diritto del titolare di una posizione qualificata di ottenere dal giudice una decisione nel merito riguardo quella posizione o bene della vita vantato. Di essa si occupa l’art. 81 c.p.c. che, disciplinando la sostituzione processuale, vieta l’esercizio in nome proprio di diritti altrui fuori dei casi tassativamente previsti dalla legge. E ciò perché anche l’iniziativa processuale è un atto dispositivo del diritto, ed espone il titolare del diritto stesso a vedere modificata, eventualmente anche in pejus, la propria sfera giuridica, ed è perciò necessario che solo il titolare veda riservato, in via esclusiva, a sé il medesimo potere di agire. L’annosa problematica della legittimazione ad agire e della rappresentatività delle associazioni di consumatori è stata definita dalla
l. 281/1998, esaminata in precedenza, che ha delineato all’art. 5 i requisiti minimi che queste devono possedere affinché possano agire in giudizio o promuovere azione inibitoria ai sensi dell’art. 1469-sexies
c.c. Se fino all’introduzione della citata legge toccava ai giudici il compito di individuare caso per caso gli indici di rappresentatività delle associazioni, magari rifacendosi agli scopi perseguiti o alla consistenza numerica delle associazioni stesse, la l. 281/98 ha istituito un filtro preliminare, affidando all’autorità amministrativa, segnatamente al Ministero dell’Industria, la cernita delle associazioni abilitate ad attivare gli strumenti processuali ivi previsti. Il fatto che le associazioni di consumatori possano agire in giudizio
rappresentando diritti non specificamente propri, ma astrattamente “dei consumatori”, non va comunque configurato come legittimazione straordinaria ovvero sostituzione processuale. Quest’ultima costituisce, infatti, una deroga alla regola generale di cui all’art. 81 c.p.c., verificandosi allorché venga conferita la legittimazione ad agire in nome proprio a soggetti portatori di interessi, o meglio diritti altrui o non esclusivamente propri, risultando quindi essere parti del processo, pur non essendo titolari di quel diritto fatto valere. La sostituzione processuale è, inoltre, istituto particolare poiché il sostituto agisce in nome altrui, ma gli effetti del giudicato si producono nei confronti del sostituito, titolare del diritto su cui la sentenza ha statuito. Ovviamente, l’attribuzione della legittimazione straordinaria in casi particolari e previsti tassativamente dalla legge, costituisce l’effetto di una valutazione politico-legislativa contrastante con il noto principio riguardante la disponibilità esclusiva della tutela giurisdizionale al titolare del diritto: si riconduce, infatti, a ragioni di opportunità o ad esigenze di natura sociale, come l’esaminando caso della legittimazione
ad agire riconosciuta alle associazioni di consumatori. Ma, la legittimazione ad agire riconosciuta a queste associazioni deve considerarsi originaria, in quanto esse sono, in realtà, titolari di situazioni soggettive proprie, poiché fanno valere interessi collettivi dei consumatori che la legge eleva a diritti. Esse non agiscono,
dunque, come sostitute dei consumatori facendo valere un diritto altrui, ma come se fossero effettive titolari di quel diritto vantato. Allo stesso modo deve escludersi anche che le associazioni di consumatori agiscano come rappresentanti dei consumatori stessi, specificamente perché il rappresentato, in caso di azione ex art. 1469- sexies c.c., non sarebbe soggetto individuato: essenziale per l’esistenza stessa della rappresentanza è proprio l’identificazione del rappresentato attraverso idonea procura che conferisce il potere di agire al rappresentante, posto che solo nei confronti del rappresentato si devono produrre gli effetti del giudicato. E tale presupposto della identificazione del soggetto, nella fattispecie, non è necessaria: i “consumatori” sono, infatti, una categoria di soggetti non identificati, peraltro destinata a mutare nel tempo. Ciò che interessa e rileva ai fini della legittimazione ad agire in capo ad un’associazione di consumatori per inibire ad un professionista l’uso di clausole vessatorie è, dunque, la contrattazione standardizzata, avvenuta al di fuori dello svolgimento della propria attività professionale (che peraltro qualifica come consumatore chi la compie) di un numero indefinito di soggetti. Indubbio deve peraltro essere che, in base al disposto dell’art. 2, ultimo comma della l. 281/98, non è comunque precluso il diritto ai singoli consumatori di proporre azioni individuali per ottenere il risarcimento del danno, in caso di illecito perpetrato da un professionista con il quale sia perfezionato un contratto contenente clausole vessatorie, fatte salve le norme sulla litispendenza, continenza, connessione e riunione di procedimenti, che nel seguito verranno esaminate in modo più approfondito. In relazione al problema della rappresentatività, inteso come elemento essenziale che la l. 281/98 richiede ai fini del riconoscimento della legittimazione ad agire, ritengo doveroso precisare che la
rappresentatività di cui all’art. 1469-sexies c.c. è riferita al termine consumatori e non al termine interessi (dei consumatori). In questo modo, la legittimazione processuale non è conseguenza della sola dichiarazione di scopo contenuta nell’atto costitutivo e statutario cui fa menzione l’art. 5 l. 281/98, che riposerebbe sulla sola volontà dei costituenti, ma è conseguenza anche di indici oggettivi, determinanti proprio la consistenza quantitativa della associazione, quali il numero degli iscritti, degli sportelli, l’organizzazione territoriale, l’essere detta associazione accreditata presso organismi istituzionali, comunitari e internazionali di tutela degli interessi dei consumatori. La legge 281/1998, tuttavia, con l'introduzione del numerus clausus delle
associazioni dei consumatori legittimate, apre nuovi interrogativi.È infatti inevitabile chiedersi se la nuova disciplina innovi quella codicistica, sostituendosi ad essa, così che per il futuro anche in tema di clausole abusive il sindacato giurisdizionale sulla rappresentatività rinvierà essenzialmente a quello amministrativo consistente nella iscrizione dell'elenco istituito presso il Ministero dell'Industria, o se al contrario la normativa codicistica permanga immutata. Una risposta è data dalla dottrina, secondo la quale la disposizione codicistica, proprio perché riferita esclusivamente alla materia contrattuale e alle clausole abusive, conserva, prima di tutto una sua specificità; sicché, mentre ipotizza che le associazioni iscritte all’elenco di cui all’art. 5 l. 281/98, possano automaticamente accedere all’azione inibitoria, non esclude a priori che anche quelle non iscritte non abbiano il diritto di agire: sarebbe altrimenti esclusa la promovibilità, da parte di associazioni locali, di azioni volte ad impedire l’impiego di condizioni generali utilizzate da imprese che hanno un bacino di utenza parimenti locale. Oltre alle associazioni di consumatori, la legittimazione ad agire per
ottenere un provvedimento che inibisca ad un professionista l’utilizzo di condizioni generali contenenti clausole vessatorie, è riconosciuta dall’art. 1469-sexies c.c. anche alle camere di commercio, industria,
artigianato e agricoltura. Ebbene, queste ultime, la cui organizzazione è disciplinata dalla l. 580/1993, sono enti autonomi di diritto pubblico che svolgono, nell’ambito della circoscrizione territoriale di competenza, funzioni di interesse generale per il sistema delle imprese, curandone lo sviluppo nell’ambito delle economie locali. L’importanza ricoperta nella regolazione del mercato è palese, ed ancora maggiore se si pensa che il ruolo affidato alle camere di commercio sia anche quello di reprimere, attraverso un controllo
intenso e formale, l’inserzione di clausole vessatorie nei contratti standard. All’uopo è stabilito dall’art. 2, comma 4 della predetta legge che le camere di commercio possano, singolarmente o in forma associata,
promuovere la costituzione di commissioni arbitrali e conciliative per la risoluzione delle controversie tra imprese e tra imprese e consumatori; predisporre e promuovere contratti tipo tra imprese, loro associazioni e associazioni di tutela degli interessi dei consumatori e utenti; promuovere forme di controllo sulla presenza di clausole inique inserite nei contratti. L’altro presupposto essenziale per l’azione è l’interesse ad agire,
disciplinato dall’art. 100 c.p.c., che testualmente recita che “per proporre una domanda o per contraddire alla stessa è necessario avervi interesse”. L’interesse ad agire si concretizza dunque, nel bisogno di tutela
giurisdizionale che emerge dall’affermazione dei fatti costitutivi e lesivi del diritto. Non necessariamente deve trattarsi di interesse in senso economico, ma è legittimante anche un interesse per quell’ulteriore e
diverso bene, segnatamente la tutela giurisdizionale, che può conseguirsi attraverso l’attività giurisdizionale stessa. Nel senso appena indicato, a mio parere, la previsione del rimedio inibitorio di cui all’art. 1469-sexies c.c., di carattere preventivo, risulta strettamente correlata con la tutela degli interessi generalizzati e diffusi, riconosciuta anche in altre forme dall’ordinamento, dal momento che per l’esperibilità di tale azione è irrilevante il verificarsi di un danno concreto, ma è sufficiente il pericolo che una lesione si verifichi in futuro. Si può dire, dunque, che l’interesse ad agire sia già stato valutato positivamente dal legislatore attraverso la previsione dello stesso rimedio inibitorio-preventivo. Non di minore importanza è il dato di fatto che sono stati riconosciuti numerosi diritti non specificamente ancorati all’esistenza di una relazione interindividuale tra soggetti, quali il diritto all’ambiente, alla salute, alla trasparenza del mercato etc., per la tutela dei quali
l’ordinamento ha dovuto introdurre mezzi di controllo particolari e destinati ad esplicare i propri effetti a beneficio della generalità dei consociati, come, appunto, l’azione inibitoria. E’ stato peraltro notato che il pericolo della lesione o della continuazione o ripetizione della stessa che giustificano l’interesse ad
agire ai fini dell’azione inibitoria, è in re ipsa quando il comportamento tenuto dal professionista è in corso, ma diviene problematico se, a seguito della proposizione dell’azione stessa, il convenuto vi pone
termine. Se ciò faccia venire meno l’interesse ad agire dipende dalla valutazione complessiva della situazione di fatto. Al riguardo, si potrebbe pensare, un po’ forzatamente, che solo la cessazione dell’attività dell’impresa farebbe venire meno l’interesse all’azione. Sicuramente più corretto è desumere che la continuazione
dell’attività di impresa sia sufficiente a fondare una presunzione semplice circa il pericolo di ripetizione, salvo l’onere della prova, a carico ovviamente del convenuto, di circostanze che comprovino la cessazione di tale pericolo.

4. Legittimazione passiva: caso “CITRÖEN” e caso “FIAT”.

Analizzate le caratteristiche fondamentali delle condizioni dell’azione, ovvero la legittimazione attiva e l’interesse ad agire dell’attore, occorre ora prendere in esame anche la situazione giuridica del soggetto
contro il quale è chiesta la tutela: il convenuto. Da un punto di vista generale, in applicazione del principio del contraddittorio di cui all’art. 101 c.p.c, che stabilisce che “il giudice, salvo che la legge disponga altrimenti, non può statuire sopra alcuna domanda, se la parte contro la quale è stata proposta non è stata
regolarmente citata e non è comparsa”, al convenuto deve essere garantita e attuata in concreto una posizione che, formalmente, sia di uguaglianza rispetto all’attore. Tuttavia, è possibile obiettare all’assunto, appena si scenda ad un esame più ravvicinato della situazione del convenuto stesso, perché, in realtà, la predetta uguaglianza non è effettivamente completa per la ragione che, innanzitutto, i soggetti della controversia non entrano nel processo nel medesimo momento e con la medesima funzione, ma in
momenti distinti e con funzione offensiva, l’uno, e difensiva, l’altro. In secondo luogo, quando il convenuto entra nel processo l’oggetto dello stesso è già stato predeterminato dall’attore ai sensi dell’art. 163,
comma 3 c.p.c. Vero è, però, che il problema della disponibilità della tutela del convenuto è risolto dall’ordinamento imponendo precisi limiti all’attore, derivanti ad esempio dal combinato disposto degli artt. 112, 163 e 164, comma 4 c.p.c. Dette norme, infatti, impongono rispettivamente al giudice di pronunciare su tutta la domanda e non oltre i limiti della stessa; all’attore la esatta determinazione della cosa
oggetto della domanda, in aggiunta ad altri numerosi e precisi adempimenti, pena la nullità della citazione ai sensi dell’art. 164, comma 4 c.p.c. qualora lo stesso oggetto della domanda e l’esposizione dei fatti e degli elementi di diritto costituenti la ragione della stessa, insieme alle relative conclusioni, non siano esattamente
determinati. Queste le dovute premesse. Per quanto riguarda l’azione promossa da un’associazione di
consumatori al fine di ottenere un provvedimento che inibisca l’uso di clausole vessatorie nelle condizioni generali di contratto, l’art. 1469- sexies c.c. stabilisce che la stessa può essere proposta contro un professionista o un’associazione di professionisti che utilizzino dette condizioni. L’individuazione del legittimato passivo non presenta dunque particolari difficoltà quando l’azione sia rivolta contro un
professionista “singolo”: sarà quel determinato professionista ad essere citato. Più complessa è, invece, l’individuazione del convenuto in caso di azione inibitoria contro un’associazione di professionisti, posto che
l’associazione medesima, proprio per la finalità perseguita, quale l’interesse in generale degli associati, possa limitarsi solo a proporre certe condizioni di contratto, senza utilizzarle. E’ stato infatti notato dalla dottrina51 che l’attività di predisposizione e raccomandazione di condizioni contrattuali uniformi da parte della
associazioni di imprese nei confronti delle loro associate incontra precisi limiti normativi, attraverso il divieto, ad esempio, di intese anticompetitive tra imprese. Per dare un senso alla norma ed individuare il legittimato passivo qualora convenuta sia un’associazione di professionisti, altra parte della dottrina ha ritenuto
di limitare l’applicazione dell’art. 1469-sexies c.c. soltanto al caso dell’esercizio in forma associata di libere professioni. E’ anche vero, però, che così facendo vengono attribuiti due significati profondamente diversi alla stessa nozione di professionista, usata nello stesso comma. In secondo luogo, così facendo la norma avrebbe un campo di applicazione molto misero, posto che le associazioni di liberi professionisti di rado, o meglio mai, utilizzano condizioni generali di contratto ai fini dello svolgimento della propria attività. Altra soluzione che potrebbe prospettarsi sarebbe quella di inquadrare l’associazione di professionisti come legittimata passiva iure proprio, per la stessa attività che questa svolge nell’interesse della categoria: la legittimazione passiva sarebbe così speculare alla legittimazione attiva. Così interpretando la norma, l’associazione sarebbe convenuta per una propria utilizzazione delle clausole abusive, cosa che invece non accade, dato che mai l’associazione opera direttamente con i consumatori, ma, ho accennato in precedenza, eventualmente
raccomanda o consiglia l’utilizzo di certe condizioni generali. Quale soluzione, allora, al problema della legittimazione passiva? La strada più logica e percorribile, ritengo, allineandomi alla giurisprudenza, sia quella di riconoscere la legittimazione passiva sia all’associazione sia ai singoli associati che in concreto utilizzino quelle clausole “raccomandate” dall’associazione di professionisti stessa. Tale soluzione è preferibile soprattutto perché risponde al testo della direttiva 93/13, che prevede all’art. 7, comma 3, che l’azione inibitoria possa essere “diretta, separatamente o in comune, contro più professionisti dello stesso settore economico o associazioni di professionisti che utilizzano o raccomandano l’inserzione delle stesse clausole generali”. Per riconoscere la legittimazione passiva dell’associazione di professionisti non è peraltro errato, a mio parere, interpretare estensivamente il concetto di utilizzo. Ciò che importa, infatti, nonè tanto l’individuazione dell’intensità del potere impositivo dell’associazione verso i suoi associati, ma è il fatto che la
legittimazione ad essere convenuta in giudizio derivi dalla natura dell’interesse che muove un soggetto, terzo rispetto le parti contraenti, a predisporre uno schema contrattuale e consigliarne l’utilizzo. E l’interesse che muove un’associazione di professionisti, ritengo, non sia sicuramente inferiore a quello che una qualsiasi associazione di categoria abbia nei riguardi dei propri associati. Esempi illuminanti circa la posizione della giurisprudenza sono dati un’altra volta da alcune sentenze del Tribunale di Torino. La prima vedeva agire il Comitato difesa consumatori contro una concessionaria CitrÖen e la stessa CitrÖen Italia S.p.A., affinché fosse loro inibita l’inserzione di alcune clausole ritenute vessatorie dal Comitato, previo accertamento della abusività stessa. La seconda promossa sempre dal Comitato difesa consumatori contro una concessionaria Fiat e la stessa Fiat Auto S.p.A., avente il medesimo oggetto. Ebbene, in entrambi i processi, costituitesi regolarmente le convenute, contestavano nel merito che le clausole impugnate fossero vessatorie; eccepivano che alcun contratto era stato mai concluso; che l’azione inibitoria era improponibile nei confronti di CitrÖen Italia S.p.A. e Fiat Auto S.p.A. dal momento che entrambe erano rimaste estranee al rapporto tra i clienti e le concessionarie; che, in ogni caso, le due società avessero, con circolari indirizzate a tutte le loro reti di vendita, richiamato l’attenzione sul contenuto della direttiva 93/13 e della l. 52/96, invitando le concessionarie ad adeguarsi alla normativa. Ritenute sussistenti la legittimazione e l’interesse ad agire del comitato ricorrente, sia perché riguardo la legittimazione alcuna obiezione era stata sollevata, sia perché l’interesse ad agire, nella fattispecie, sussisteva (e sussiste) anche in mancanza di un danno concreto e
monetizzabile, il giudice torinese ha notevolmente contribuito a delineare i requisiti della legittimazione passiva, dissolvendo le annose diatribe dottrinali esaminate in precedenza. Come detto, le case automobilistiche convenute hanno eccepito l’improponibilità dell’azione inibitoria nei loro confronti, assumendo che la normativa introdotta dalla novella del 1996 limiterebbe il proprio campo di applicabilità ai rapporti con i professionisti che utilizzano il contratto; e tale requisito difetterebbe in capo alle convenute stesse atteso che erano entrambe rimaste estranee ai rapporti tra concessionarie e consumatori e, pertanto, non potevano né essere identificate come il professionista di cui all’art. 1469-bis c.c. né essere destinatarie dell’azione promossa, poiché alcuna inibitoria era prevista a carico di chi avesse predisposto o raccomandato a terzi l’utilizzo delle condizioni generali. Ad avviso del giudice tale eccezione non era fondata. Nelle motivazioni della sentenza si legge, infatti, che la locuzione “utilizzano”, per il contesto in cui è inserita merita un’interpretazione lata, che non può limitarsi a ricomprendere la mera attività di uso delle condizioni contrattuali per la conclusione di singoli contratti rientranti nell’attività del professionista, ma deve essere estesa fino a ricomprendere la più ampia attività di predisposizione ed elaborazione delle medesime clausole. Se diverso fosse lo spirito della normativa non si spiegherebbe come mai l’art. 1469-sexies c.c. avrebbe
riconosciuto la legittimazione passiva anche delle associazioni di professionisti, che notoriamente non concludono contratti con il pubblico e dunque non “utilizzano”, nel senso stretto del termine, le condizioni generali. Il giudice torinese ha poi giustamente osservato che “gli strumenti di tipo preventivo non sarebbero in grado di spiegare la loro efficacia se applicati solo nei confronti di quei soggetti che utilizzano nelle concrete transazioni economiche le clausole abusive, traducendole in singoli contratti, dal momento che resterebbero in piedi, e quindi potenzialmente utilizzabili da altri soggetti economici, diversi da quelli singolarmente colpiti dall’inibitoria, atteso il limite soggettivo del giudicato.” Parimenti si legge nella sentenza emessa nella causa contro una concessionaria Fiat e Fiat Auto S.p.A.: “nulla quaestio per quanto attiene la legittimazione passiva della concessionaria. Per quanto riguarda la Fiat Auto S.p.A., l’art. 1469-sexies c.c. si riferisce al professionista o alla associazione di professionisti che utilizzano condizioni generali di contratto. Al termine “utilizzano” deve essere data un’interpretazione ampia e concreta, comprensiva della ben più complessa attività di elaborazione e predisposizione delle medesime clausole.” Per concludere, ritengo peraltro che al fine di offrire al consumatore una tutela adeguata e concreta, non è possibile, in generale, non
prendere in considerazione l’ipotesi di riconoscere la legittimazione passiva dei “raccomandanti” le condizioni generali di contratto, posto che la finalità dell’azione di cui all’art. 1469-sexies c.c. è proprio quella di far ritirare dal mercato quelle clausole considerate abusive, cioè di vietare all’imprenditore, sia esso singolo o in veste di associazione di professionisti, di utilizzare in tutti i successivi contratti tali clausole.


5. Contenuti ed effetti della sentenza inibitoria tra le parti e sui terzi non attori (limiti oggettivi e soggettivi del giudicato)

Il giudizio instaurato a seguito di azione inibitoria ex art. 1469-sexies c.c. promossa da un’associazione rappresentativa di consumatori o da una camera di commercio ha la finalità di “inibire l’uso di condizioni generali di cui sia accertata l’abusività ai sensi della normativa introdotta dal capo XIV-bis c.c.”
Nello stesso giudizio, per espressa indicazione del legislatore, si ha un duplice oggetto ed un conseguente duplice contenuto della sentenza di accoglimento: l’accertamento dell’antigiuridicità delle condizioni generali di contratto per violazione dell’art. 1469-bis c.c. e la condanna a non impiegare quelle condizioni nel futuro traffico giuridico. La sentenza, dunque, oltre ad avere contenuto di accertamento, inteso come tutela accordata attraverso la statuizione della certezza di una data situazione di diritto, ha anche un contenuto funzionale ad una concreta proibizione di comportamenti, anche e soprattutto futuri, che può definirsi come condanna ad un non facere. La ratio dell’andare oltre il semplice accertamento è evidente: l’uso di fatto di una condizione, per quanto illecita, nulla o inefficace, nonè privo di effetti nel concreto assetto degli interessi, perché può comunque influenzare i comportamenti successivi. Ed è proprio questo uso di fatto di clausole abusive, pur dichiarate giuridicamente inefficaci, che il legislatore vuole eliminare. Si può dunque constatare
che l’accertamento della vessatorietà delle condizioni sia condicio sine qua non della successiva condanna.
Inoltre, al fine di rafforzare la tutela della collettività dei consumatori,è stato attribuito al giudice il potere di cui all’ultimo comma dell’art. 1469-sexies c.c., secondo il quale può ordinare che il provvedimento sia
pubblicato in uno o più giornali, di cui uno almeno a diffusione nazionale, e sono state introdotte ultimamente alcune misure coercitive, che saranno esaminate nel seguito, in caso di inottemperanza a sentenza. Ho accennato al fatto che la sentenza che inibisce ad un professionista l’inserzione di condizioni generali abusive, determina anche l’inefficacia di quelle clausole dichiarate tali. Infatti, l’art. 1469- quinquies, comma 1 c.c. impone quale conseguenza della predetta vessatorietà, proprio l’inefficacia delle clausole abusive, ferma restando la validità del contratto per quanto riguarda la restante parte dello stesso.
In seguito alla dichiarazione di inefficacia delle clausole considerate abusive dalla sentenza di accertamento e conseguente condanna del professionista, secondo una corrente dottrinale,la cui linea di pensiero non ritengo condivisibile, la sentenza stessa appronterebbe, peraltro, una tutela costitutiva, ai sensi dell’art. 2908 c.c., intesa dunque come modifica, costituzione o estinzione di un rapporto giuridico tra le parti, gli eredi o aventi causa, da parte del provvedimento del giudice. E questo perché, mentre la tutela di accertamento si
esaurirebbe nella declaratoria del diritto vantato dall’attore e quella di condanna si verificherebbe nel mondo materiale, l’attuazione della decisione costitutiva avverrebbe sul piano degli effetti giuridici prodotti dallo stesso provvedimento e non richiederebbe alcuna collaborazione materiale di altri soggetti. L’unico problema pratico si ridurrebbe, così, alla conoscenza della pronuncia giudiziale di vessatorietà della clausola contrattuale. Problema risolto dall’accennato potere attribuito al giudice di far pubblicare il provvedimento su uno o più giornali a “tiratura” nazionale sia in forza dell’art. 1469-sexies, comma 3 c.c., sia anche a norma dell’art. 120 c.p.c. Peraltro, se così non fosse, secondo questa teoria, pur essendo pronunciata una decisione costitutiva di vessatorietà, e quindi di inefficacia giuridica di una clausola contrattuale, ciò potrebbe non
essere noto, con la conseguenza che in un giudizio promosso dal professionista per ottenere il rispetto di una clausola contrattuale dichiarata inidonea a produrre effetti giuridici, potrebbe venir pronunciata una sentenza che obblighi il consumatore al rispetto proprio di quella clausola. Per quanto riguarda gli effetti della sentenza inibitoria, è opportuzo esaminare preliminarmente la regola generale riguardante gli effetti sostanziali del giudicato, stabilita ai sensi dell’art. 2909 c.c., secondo cui l’accertamento contenuto in esso, passato in giudicato, faccia stato ad ogni effetto tra le parti, i loro eredi o gli aventi causa, dove per passato in giudicato formalmente, ai sensi dell’art. 324 c.p.c., si intende quella sentenza non più soggetta né a regolamento di competenza, né ad appello, né a ricorso per cassazione, né a revocazione ordinaria. Stando ad una letterale e superficiale lettura della normativa a tutela dei consumatori, si potrebbe preliminarmente constatare e risolvere ogni eventuale dubbio di estensione dei limiti soggettivi della sentenza passata in giudicato, considerando che queste regole generali valgano anche per la sentenza emessa in seguito ad azione inibitoria, dato l’assoluto silenzio del legislatore in merito. La norma si limita infatti a legittimare determinati enti e riconoscere che questi ricorrano al giudice affinché ottengano un provvedimento che accerti l’antigiuridicità delle clausole di un contratto e imponga alla controparte, un professionista, di attenersi ad un determinato comportamento, senza stabilire alcunché circa l’estensione del giudicato. Ma, a mio parere, l’art. 1469-sexies c.c. tende ad evitare che al di là dei rimedi successivi azionabili dal singolo consumatore a difesa della sua posizione contrattuale, sia scongiurato il rischio che qualunque consumatore sia messo nella condizione di dover dapprima subire in via negoziale una condizione iniqua predisposta dal
professionista e in seguito agire in via giudiziale per ottenerne l’eliminazione. Proprio per le finalità e il carattere generale finora esposti riconosciuti all’azione inibitoria, malgrado il silenzio del legislatore, potrebbe
desumersi che non sia esclusa l’efficacia erga omnes degli effetti della sentenza inibitoria di accoglimento, dove per efficacia erga omnes vi è da intendersi il carattere riconosciuto alla sentenza di esplicare i propri
effetti positivi nei confronti di tutti i consumatori. Tengo a sottolineare la locuzione di “accoglimento” perché nel caso in cui una clausola impugnata sia dichiarata efficace, quindi non abusiva, secondo un siffatto ragionamento, sarebbe pregiudicata la posizione del singolo consumatore o della associazione in un ipotetico futuro giudizio. Infatti, se il giudicato che riconosce l’efficacia di una clausola potesse essere invocato dal professionista contro un altro consumatore o un'altra associazione, si determinerebbe la violazione del diritto di difesa sancito dall’art. 24 Cost., poiché a questi soggetti, non intervenuti nel precedente giudizio, non sarebbe riconosciuta la possibilità di far valere i loro diritti nel futuro. Per rispetto del principio in base al quale tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi, non sarebbe dunque ammissibile il richiamo del giudicato a danno del singolo consumatore o associazione, ma solo in suo favore. Il professionista convenuto, invece, avrebbe avuto e avrà modo nel successivo giudizio di difendersi, onde per cui il suo diritto di difesa non sarebbe stato pregiudicato. E se anche rimanesse una dissimmetria fra le due posizioni, essa parrebbe giustificata dalla dottrina in termini di" eguaglianza sostanziale", cioè come soluzione di protezione di un interesse costitutivamente debole, quale è quello del consumatore nei confronti dell’impresa. Chiaro deve essere, però, che proprio per il rispetto del diritto alla difesa, gli effetti del giudicato non possono essere invocati contro un professionista diverso da quello che è stato destinatario della condanna inibitoria, anche quando un altro professionista utilizzi una clausola del tutto identica a quella oggetto del primo provvedimento. Sempre in tema di efficacia e limiti soggettivi del giudicato, altre e diverse teorie sono state al riguardo prospettate per giustificare l'estensione dello stesso, verso la totalità dei consumatori, ovvero anche verso quei consumatori che non abbiano aderito all'associazione proponente l'azione inibitoria. Una prima tesi, ispirandosi agli ordinamenti di common law, sostiene che il giudicato sulla vessatorietà oppure no di una clausola contrattuale, agisce come "precedente decisione intervenuta tra altri soggetti" e per tale motivo avrebbe forza vincolante anche per successivi provvedimenti aventi medesimo oggetto. Nel nostro ordinamento, però, non sussiste innanzi tutto alcuna forza vincolante del precedente; in secondo luogo, il fatto che il giudice possa, senza però alcuna obbligazione, ordinare la pubblicazione della
sentenza su uno o più giornali, non comporta un’adeguata, ma soprattutto sicura, forma di conoscibilità della stessa. Diversa teoria, invece, nell'ammettere l'estensione erga omnes (in senso stretto) dei limiti soggettivi del giudicato, constata che lo stesso, formatosi a seguito di azione inibitoria promossa da un'associazione
rappresentativa di consumatori, "giova e nuoce." Ciò significa che il giudicato, in caso di esito positivo per l'associazione proponente, estenderebbe i propri effetti a tutti i consumatori, consentendo a ciascuno di loro di richiedere la cancellazione della clausola dichiarata vessatoria. Di contro, coerentemente, in caso di esito negativo dell'azione inibitoria, il giudicato costringerebbe la totalità dei consumatori a subire gli effetti negativi di un giudicato intervenuto inter alios. A mio parere e per i motivi in precedenza esposti, tale ipotesi
configura una violazione del diritto di difesa, essendo evidente una forte compressione dello stesso, che invece risulta essere costituzionalmente garantito dall'art. 24 Cost. Ancora, altra teoria, la più corretta a mio parere, giustifica l'estensione ultra partes del giudicato reso nel giudizio collettivo, riconducendolo alla volontà di finalizzare il controllo delle condizioni generali di contratto alla protezione di quegli interessi
" superindividuali" che sono la correttezza e la trasparenza dei rapporti contrattuali standardizzati. Ciò comporterebbe considerare la suddetta estensione una imprescindibile garanzia di effettività della tutela, ogni volta in cui la posizione giuridica fatta valere in giudizio abbia rilevanza superindividuale. L'estensione dei limiti soggettivi del giudicato, dunque, è giustificabile solo intendendola come essenziale per il rispetto del principio della effettività della tutela giurisdizionale sancito dall’art. 24 Cost. Infatti, se è vero che il principio della tutela dei terzi nei confronti della sentenza pronunciata inter alios trova fondamento nel dettato
dell’art. 24 Cost. che garantisce sempre e comunque il diritto alla difesa, è pur vero che detta norma deve essere intesa nel senso che essa presti tutela non solo al diritto alla difesa e al contraddittorio, ma anche all’effettività della tutela giurisdizionale: il rispetto di tale principio imporrebbe, dunque, di riconoscere l’estensione soggettiva del giudicato laddove l’attuazione effettiva e concreta dei diritti non possa essere realizzata se non per il tramite di una sentenza che esplichi efficacia anche oltre la cerchia dei soggetti fra i quali siè costituito e svolto il rapporto processuale. Pur nel silenzio della legge, in linea con queste considerazioni, si potrebbe pertanto essere indotti ad attribuire alla sentenza inibitoria di cui all’art. 1469- sexies c.c. efficacia anche nei confronti dei singoli consumatori che abbiano stipulato contratti contenenti clausole vessatorie: e tale efficacia opererebbe peraltro, secundum eventum litis, consentendo ai singoli di avvalersi della sentenza di accoglimento, senza che, viceversa, il rigetto dell’inibitoria possa pregiudicarli in
alcun modo. Tuttavia, è bene ribadire, che la previsione di siffatta estensione del giudicato dimostra sì di essere particolarmente adeguata laddove la situazione tutelanda sia un interesse dotato di rilevanza generale, ma rimane comunque figura del tutto eccezionale, soprattutto se si pensa all’importanza e alla rilevanza della contrattazione standardizzata nell’economia moderna. E’ bene, dunque, al fine di perseguire un equo contemperamento degli interessi tra consumatori e professionisti, non introdurre eccessive disparità di trattamento tra i contraenti. L’opportunità di ritenere che la sentenza inibitoria possa giovare a tutti coloro che, dopo la pronuncia stessa, stipulino un contratto contenente clausole dichiarate vessatorie, infatti, desta qualche perplessità se si pensa proprio alla discriminazione che ciò potrebbe comportare nei confronti del professionista. L’ammissibilità di un’efficacia ultra partes della sentenza inibitoria, in quanto ispirata alla citata legge tedesca e al progetto Bianca, si potrebbe esporre, pertanto, a critiche analoghe a quelle espresse in
relazione al progetto Bianca, che, pur prevedendo espressamente l’automatica inefficacia delle clausole dichiarate vessatorie e ancora inserite nei contratti individuali, non conteneva alcuna disposizione circa la sussistenza di un limite di efficacia della pronuncia inibitoria. Al fine di evitare simili incongruenze, ritengo pertanto che sarebbe opportuno introdurre nel nostro ordinamento una disposizione che contempli e definisca in modo chiaro un istituto che permetta l’estensione ultra partes della sentenza inibitoria ispirato, per esempio, all’art. 1306 c.c., ovvero ispirato al principio dettato in merito alle obbligazioni solidali, secondo il quale la sentenza pronunciata fra il professionista e un’associazione di consumatori, intesa come molteplicità di soggetti creditori in solido, esplica i suoi effetti diretti anche a favore degli altri consumatori non intervenuti nel giudizio. E ciò in relazione alla indubbia eccezionalità che si andrebbe ad attribuire all’istituto, ispirato e funzionale alla tutela di interessi che definirei “superindividuali” e intangibili. Venendo agli elementi oggettivi dell’azione, ed in conseguenza, all’esame dei limiti oggettivi del giudicato, è bene premettere preliminarmente che detti confini del giudicato coincidono con quelli dell’azione e che non esiste, come, di contro, nel caso dei limiti soggettivi, una norma specificamente dedicata ai problemi di estensione oggettiva del giudicato. Gli elementi oggettivi dell’azione, che determinano in conseguenza anche i limiti predetti, sono l’oggetto e il titolo. L’oggetto, detto anche petitum, consiste in ciò che attraverso la domanda promossa in via giurisdizionale si chiede. In buona sostanza, nell’azione inibitoria l’oggetto potrebbe
configurarsi come la richiesta di una associazione rappresentativa o di una camera di commercio, al giudice competente, che inibisca ad un professionista l’uso di condizioni generali di contratto contenenti clausole vessatorie. Ebbene, in ogni tipo di azione, e dunque anche nell’azione inibitoria, la domanda, in realtà, è rivolta a due soggetti diversi, ovvero il giudice e la controparte-professionista: ciò comporta, in concreto, la
sussistenza di due aspetti completamente differenti dell’oggetto della domanda. Si ha pertanto un petitum immediato, quale è la domanda rivolta direttamente al giudice, al quale si chiede il provvedimento inibitorio; in via mediata, invece, la domanda è rivolta al professionista convenuto, al quale non è richiesto un provvedimento, ma uno specifico comportamento, cioè quello di non inserire nel futuro quelle clausole ritenute dal giudice abusive. L’altro elemento oggettivo dell’azione, che rileva anche ai fini dell’individuazione dei limiti oggettivi del giudicato, è il titolo o causa petendi. Questo elemento indica, invece, la ragione giuridica in forza della quale quella domanda è stata proposta: in buona sostanza, la ragione giuridica del domandare, dunque la causa petendi, si individua attraverso la allegazione dei fatti che costituiscono il ondamento del diritto affermato per il quale viene chiesta tutela giurisdizionale e con l’indicazione del fatto lesivo posto in essere dal convenuto, che concreta l’interesse ad agire. Nel caso di azione inibitoria promossa da un’associazione di consumatori, la ragione giuridica del domandare è, in buona sostanza, costituito dalla richiesta di una tutela di accertamento di quel diritto “superindividuale” costituito dalla correttezza e trasparenza, latu senso intese, nella contrattazione, in base alla quale sia stabilito e reso incontrovertibile che una data clausola inserita nel dato contratto standard sia abusiva, a fronte dell’allegazione del pericolo di lesione e affinché il diritto della generalità dei consumatori alle predette correttezza, trasparenza, informazione etc. sia protetto. Nella fattispecie, peraltro, il fatto lesivo non è stato, per il momento, posto in essere, non potendo, in conseguenza, essere né indicato né individuato, vero è che in precedenza, in merito all’interesse ad agire delle associazioni di consumatori, ho constatato che lo stesso sia in re ipsa. Per quanto riguarda l’azione inibitoria promossa da una camera di commercio, il discorso nella sostanza non cambia; ’unica differenza concerne la funzione attribuita a questi enti dalla legge, cioè quella di contribuire alla regolazione del mercato mantenendo la propria autonomia e indipendenza,66 anziché di far valere un diritto
superindividuale come se fosse proprio. Non trova, a mio parere, fondamento la tesi di chi ritiene che la
tutela di accertamento possa essere concessa solo al titolare di un diritto soggettivo, salvo che sia riversamente prescritto dalla legge, e che qualifica l’abusività come particolare carattere che una clausola
può rivestire in ragione del suo contenuto, trattandosi perciò di una semplice situazione, giuridicamente rilevante sì, ma solo funzionale all’ottenimento dell’inibitoria. A mio parere, invece, è possibile considerare innanzi tutto che alcuni principi generali del processo, come quelli riguardanti l’accertamento di un diritto, sono stati sì creati per le controversie individuali, ma di tali principi si deve anche dare un’interpretazione diversa qualora vengano trasposti nell’ambito della tutela collettiva. Nella tutela individuale, infatti, l’accertamento, per regola generale ricavabile dall’art. 24 Cost., può sempre avere come oggetto diritti
soggettivi, mentre solo in caso di espressa previsione legislativa, può avere ad oggetto semplici situazioni giuridiche o semplici fatti giuridicamente rilevanti. Ciò deriva probabilmente dal principio di economia dei giudizi: i diritti sono sempre accertabili, mentre i fatti e le situazioni giuridiche, di regola, no. In secondo luogo e in dipendenza di ciò, questo limite può cadere allorché quel fatto o situazione coinvolgano una collettività, riguardino perciò questioni superindividuali, ancorché l’accertamento di un diritto soggettivo sia possibile solo se se ne è individuato il titolare: risulterebbe essere privo di senso attivare la macchina giudiziaria per accertare solo un singolo fatto e non, di contro, per accertare una situazione giuridica coinvolgente l’intera collettività. A giusta ragione, dunque, è possibile affermare che l’accertamento di
mere situazioni giuridiche facenti capo ad una molteplicità di soggetti vada ammesso quale forma insostituibile” di tutela. In buona sostanza, la rilevanza collettiva di una situazione giuridica può far assurgere quest’ultima ad un rango superiore, rispetto a quello da essa rivestito in una controversia individuale. E’ stato, ancora, notato che la tutela approntata attraverso l’azione inibitoria non può considerarsi di accertamento perché la valutazione sul carattere abusivo di una clausola non si riveste delle caratteristiche
della vera e propria decisione, e quindi dell’accertamento vincolante, ma resta confinata sul terreno della mera cognizione incidenter tantum. La questione relativa al carattere abusivo delle clausole non diviene,
pertanto, oggetto di accertamento, poiché manca delle caratteristiche in virtù delle quali si riconosce nel nostro sistema quella che potrebbe chiamarsi “minima unità strutturale” capace di costituire l’oggetto di
una vera e propria decisione. Nel nostro ordinamento, pertanto, oggetto di vera e propria decisione possono essere solo ed esclusivamente i diritti soggettivi, salvo che sia diversamente prescritto dalla legge. La sentenza inibitoria, secondo questa linea di pensiero, proibendo al professionista di inserire nei futuri contratti le clausole definite abusive, si qualifica, dunque, come nuova regola destinata a valere nei rapporti tra il professionista e i suoi clienti e avrebbe così carattere di sentenza costitutiva. Meglio specificando, si è sostenuto che la sentenza costitutiva abbia ad oggetto proprio l’accertamento del diritto dell’associazione di consumatori di ottenere dal giudice l’enunciazione di quella regola destinata a reggere i futuri rapporti tra il professionista e suoi potenziali clienti. L’accertamento verterebbe, pertanto, su un tema diverso da quello costituito dal carattere abusivo della clausola, essendo quest’ultimo solo la premessa per l’accertamento sul
consequenziale diritto fatto valere dall’associazione: la sentenza costitutiva statuisce questo diritto e nello stesso tempo lo soddisfa creando una nuova regola cui l’attore mira. Quanto ai limiti oggettivi del giudicato, ho accennato in precedenza che non esiste una norma specifica ad essi dedicata, ma è comunque possibile ricavare un fondamento positivo degli stessi nell’art. 2909 c.c. nel momento in cui enuncia che ciò che “fa stato” tra le partiè l’accertamento passato in giudicato contenuto nella sentenza. Ciò che passa in giudicato, peraltro, è la concreta decisione del giudice sulla domanda proposta. E nel caso di azione inibitoria, a mio parere, il limite oggettivo del giudicato, cioè ciò che fa stato, concernerà l’accertamento del giudice
della vessatorietà della clausola impugnata contenuta nelle condizioni generali di un contratto, nonché la condanna del professionista convenuto a non utilizzare nel futuro quelle condizioni ritenute abusive. Passerà pertanto in giudicato quel provvedimento contenente la statuizione della declaratoria di inefficacia delle clausole ritenute vessatorie e il comando di non facere imposto al professionista. Come accennato in precedenza, la questione del giudicato collettivo solleva un’importante questione se messo in relazione all’art. 3, comma 7 l. 281/98, nel momento in cui stabilisce che l’azione inibitoria non preclude il diritto ad azioni individuali, fatte salve le norme sulla litispendenza, continenza, connessione, riunione delle cause radicate dai singoli consumatori. In buona sostanza, il legislatore sembrerebbe prevedere diversi gradi di connessione: dalla connessione massima, che è la litispendenza, a quella generica per identità di almeno uno degli elementi di identificazione dell’azione. Ebbene, viene da domandarsi quando e se possa effettivamente
verificasi litispendenza tra una causa promossa dal singolo e un’azione collettiva. Premesso che la litispendenza, ma anche la connessione, si configurino quando si verifichi l’identità di soggetti in diversi giudizi, l’unico modo per dare un senso al suddetto riferimento normativo e ricavarne una deduzione logica, è quello di pensare ad una legittimazione straordinaria dell’associazione a far valere in giudizio il
diritto vantato dal singolo consumatore. E’ stato, però, ampiamente argomentato che la legittimazione riconosciuta alle associazioni rappresentative non sia straordinaria, e anche ammettendone per
assurdo la configurabilità, basta pensare al fatto che riconoscere nel contesto l’istituto della litispendenza significherebbe assumere che l’azione collettiva, se proposta dopo l’azione individuale, dovrebbe essere chiusa in rito. Per quanto riguarda, invece, la continenza potrebbe avere senso la configurazione dello stesso istituto considerando l’azione promossa dall’associazione come avente un petitum più ampio rispetto a quello
dell’azione promossa dal singolo consumatore. Anche in questo caso occorre tenere ben presente che l’associazione non è una legittimata straordinaria. La decisione potrà produrre effetti nei giudizi dei singoli
consumatori rimasti terzi all’azione inibitoria, qualora sussista un rapporto di connessione per pregiudizialità-dipendenza fra la controversia collettiva e quella individuale. Si potrebbe così negare la
produzione di effetti della sentenza inibitoria nei confronti dei terzi non intervenuti, solo ampiamente premettendo che una sentenza sia a ciò idonea solo ed esclusivamente quando previsto dalle legge. Non ritenendo di condividere codesta opinione, sostengo che i terzi titolari di posizioni giuridiche dipendenti subiscono gli effetti della sentenza resa tra altri, salva comunque la possibilità di impugnare la sentenza stessa ai sensi dell’art. 404 c.p.c., ovvero ai sensi della disciplina sull’opposizione di terzo. In buona sostanza, viene da pensare che il legislatore, riferendosi alla litispendenza e continenza abbia voluto solo effettuare un generale rinvio alle norme che disciplinano la connessione fra azioni diverse, ispirandosi ad abundantiam a quelle forme di “forte” connessione, che danno origine alla litispendenza e alla continenza.

6. Mezzi coercitivi in caso di inottemperanza a sentenza.

Un annoso problema relativo al caso in cui un professionista, che avesse predisposto e utilizzato condizioni generali di contratto contenenti clausole riconosciute, in sede di giudizio inibitorio, abusive, ma non si fosse adeguato all’ordine del giudice di non inserire dette clausole nei successivi contratti, è sempre stato la mancanza di misure coercitive di esecuzione forzata che, concretamente, attuassero le disposizioni contenute nella sentenza. Il problema è stato risolto solo dopo circa un decennio dall’introduzione del capo XIV-bis c.c., dall’art. 11 della l. 1 marzo 2002 n. 39, che ha provveduto ad introdurre nel nostro ordinamento una misura coercitiva indiretta tesa proprio alla tutela degli interessi della categoria dei consumatori. All. art. 3 della l. 281/98 è stato infatti aggiunto un comma 5-bis secondo il quale “in caso di inadempimento degli obblighi stabiliti dal provvedimento reso nel giudizio inibitorio, ovvero previsti nel verbale di conciliazione, omologato dal tribunale competente, il giudice, anche su domanda dell’associazione che ha agito in giudizio, dispone il
pagamento di una somma di denaro da Euro 516,00 a Euro 1.032,00, per ogni giorno di ritardo rapportato alla gravità del fatto. Tale sommaè versata all’entrata del bilancio dello Stato per essere riassegnata con
Decreto del Ministero dell’Economia e delle Finanze al fondo da istituire nell’ambito di apposita unità previsionale di base dello Stato di previsione del Ministero delle Attività Produttive, per finanziare iniziative a vantaggio dei consumatori.” La novella ha lo scopo dichiarato di completare il recepimento della direttiva dell’Unione Europea del 1998 n. 27, volta all’introduzione negli Stati membri di strumenti inibitori generali a tutela dei consumatori. In questa direttiva, infatti, si era previsto, tra i provvedimenti ottenibili con l’esperimento dell’azione collettiva, anche la condanna del soccombente al versamento di una somma di denaro al “Tesoro pubblico o ad altro beneficiario per ogni giorno di ritardo.” Lo scopo perseguito dalla disposizione era, pertanto, proprio quello di assicurare l’esecuzione delle decisioni e risolvere il problema
dell’incoercibilità dei provvedimenti di condanna inibitoria: presupposto di applicazione della misura coercitiva era, infatti, il caso di “non esecuzione della decisione entro il termine fissato dall’organogiurisdizionale o dalle autorità amministrative”, con la finalità di “garantire l’esecuzione delle decisioni”. Per quanto riguarda l’ambito di applicazione della misura prevista dall’art. 5-bis, è opportuno notare preliminarmente che nella disposizione si fa espresso riferimento all’inadempimento degli obblighi contenuti nei provvedimenti emessi ad esito dell’azione prevista dal comma primo e nel verbale di conciliazione di cui al comma quarto dello stesso art. 3 l. 281/98. Ebbene, ciò significa che la misura coercitiva può essere sicuramente richiesta in seguito ad azione inibitoria ex art. 1469-sexies c.c. e in caso
di inadempimento di una “misura idonea” adottata per eliminare o correggere gli effetti dannosi della violazione accertata di cui alla lettera b). Per quanto riguarda, invece, il richiamo al processo verbale di
conciliazione omologato dal tribunale di cui all’art. 3, comma 4 l. 281/98, occorre precisare che già nel testo originario della legge, al citato verbale è attribuita espressamente l’efficacia di titolo esecutivo:è stabilito, infatti, che questo è dichiarato tale con decreto del giudice e costituisce titolo esecutivo in seguito all’omologazione. In dipendenza di ciò, si delinea nella norma un titolo esecutivo funzionale ad un’esecuzione forzata di obblighi di fare o di non fare infungibili, quali sono quelli imposti da una sentenza inibitoria di
accoglimento. Ci si chiede, però, se possa effettivamente considerarsi esecutivo un verbale di conciliazione, posto che l’art. 612 c.p.c. richieda, ai fini dell’esecuzione di obblighi di fare o di non fare, la presenza di un titolo esecutivo giudiziale, cioè di una sentenza. Ebbene, in questo caso, in deroga al predetto principio generale,è attribuita espressamente la possibilità di porre in essere misure di esecuzione coattiva indiretta, in funzione della realizzazione di un diritto di credito ad una prestazione, come detto, di fare o non fare,
sulla base di un verbale. Ciò premesso, per capire la vera portata della novella, occorre qualificare la misura coattiva disciplinata dall’art. 5-bis. Il meccanismo del comma 5-bis, è stato notato, si rifà, al modello
dell’astreinte, tipica misura di coazione dell’ordinamento francese e costituita dalla minaccia di condanna al pagamento di una somma di denaro per ciascun giorno di tardiva esecuzione di un obbligo contenuto in un provvedimento del giudice. Si tratta peraltro di un mezzo di coazione della volontà del soggetto obbligato che non si attiva spontaneamente per conformarsi a quanto contenuto nel provvedimento inibitorio del giudice ottenuto da un’associazione di consumatori, perché in capo al soccombenteè posto un obbligo di cessare la condotta lesiva ed eliminarne gli effetti per il futuro. Ciò significa, ribadisco, che la prestazione di fare o di
non fare, sia caratterizzata dall’infungibilità, e questa, per definizione, implica la non eseguibilità forzata diretta di detto obbligo, soprattutto perché non può essere surrogata dall’attività di un terzo, ad esempio
dell’ufficiale giudiziario. Per questi motivi la condanna al pagamento di un importo per ogni giorno di ritardo è funzionale ad indurre l’obbligato a porre in essere la prestazione che solo lui può compiere: e l’astreinte, così come il meccanismo previsto dal comma 5-bis della l. 281/98, coartando la volontà del soggetto, mirano ad ottenere da quest’ultimo l’esecuzione spontanea del contenuto dell’obbligo. Il fatto che la domanda di emissione della misura possa essere proposta “anche dall’associazione che agito in giudizio”, genera alcune
perplessità. Il testo normativo è chiaro nel senso di consentire la domanda all’ente legittimato che abbia effettivamente partecipato al giudizio. Ma, ci si chiede se le associazioni rimaste estranee, e che avrebbero comunque potuto agire, siano in ogni caso legittimate a richiedere la misura coercitiva in commento, posti i limiti soggettivi del giudicato della sentenza inibitoria. Ebbene, ritenuto che la pronuncia inibitoria di accoglimento estenda la propria efficacia anche agli enti legittimati rimasti terzi rispetto al giudizio, è facilmente intuibile che sia riconosciuta anche a questi enti la possibilità di agire e utilizzare la sentenza come titolo esecutivo per ottenere l’esecuzione coattiva del contenuto della decisione. Se così non fosse, sarebbe priva di effetti la tutela della generalità dei consumatori approntata dalla sentenza emessa in seguito ad azione inibitoria e avrebbe scarso significato riconoscere l’estensione dei limiti soggettivi della sentenza stessa. A ciò si aggiunga il pericolo di ripetizione del comportamento lesivo del professionista cui andrebbe
incontro la totalità dei consumatori, qualora l’associazione attrice rimanesse inerte e non proponesse omanda per l’ottenimento della misura coercitiva in commento. In altre parole, l’esclusione dal dettato normativo delle associazioni rimaste estranee al giudizio, manifesta una certa insufficienza della formulazione dell’art. 5-bis.
Un’altra considerazione è suscitata dalla parola “anche” associata alla locuzione “su domanda”. La norma, letteralmente interpretata, lascia intendere che la misura possa essere disposta d’ufficio dal giudice e, solo in via secondaria, richiesta dall’associazione. Tuttavia, gli esiti di questa interpretazione destano perplessità.
Non è innanzi tutto facile immaginare il funzionamento dell’astreinte d’ufficio, poiché è altamente improbabile che il giudice possa venire a conoscenza dell’inadempimento dell’obbligato, senza una specifica istanza di parte. A mio avviso, è forse più logico ipotizzare soltanto che, in sede di emissione della sentenza inibitoria, il giudice d’ufficio, senza essere richiesto dall’associazione attrice, si attivi e arricchisca il contenuto dalla pronuncia con la minaccia della condanna al pagamento di una certa somma. In ogni caso, infatti, si tratta dell’emissione di una condanna al pagamento di un importo, cioè della concessione di un provvedimento
di tutela giurisdizionale molto incisivo sulla posizione delle parti, e nel nostro ordinamento, per ottenere dall’autorità giudiziaria la protezione di una situazione sostanziale è sempre necessaria l’istanza di parte.
Se fosse altrimenti, la norma in commento parrebbe senza dubbio poter sortire gli effetti della violazione del principio della domanda ex art. 24 Cost. e 99 c.p.c. Quanto al procedimento da seguirsi per giungere all’emanazione della misura da parte del giudice, l’art. 5-bis non detta alcuna disposizione. In linea teorica, e anche pratica, onde evitare il rischio dell’invenzione di procedimenti alternativi, potrebbe essere utilizzabile la disciplina di cui agli artt. 612 e seguenti c.p.c., che detta le disposizioni per l’esecuzione in forma specifica degli obblighi di fare e di non fare: l’associazione legittimata potrà pertanto proporre ricorso affinché il
giudice determini le modalità di esecuzione, tra le quali può farsi rientrare la misura coercitiva in questione.
Non pare che esistano ostacoli in tal senso, anche se l’art. 612 c.p.c. non è così ampio da permettere al giudice dell’esecuzione di disporre misure coercitive di esecuzione forzata indiretta. A prescindere, ogni
dubbio si risolve nel momento in cui si noti che l’art. 612 c.p.c. si riferisce alle sentenza di condanna per la violazione degli obblighi di fare o di non fare tout court, senza alcun riferimento alla fungibilità o
meno della prestazione. Nonostante le rilevate perplessità, si può concludere affermando che la nuova norma introduce ciò che mancava alla tutela dei consumatori, dotando di una misura coercitiva l’esecuzione del contenuto di una sentenza di condanna inibitoria ottenuta dalle associazioni legittimate. Sia in sede di redazione dell’art. 1469-sexies c.c., sia nell’ambito della l. 281/98, il legislatore aveva perduto varie importanti occasioni per introdurre meccanismi esecutivi volti a garantire l’effettività della protezione giurisdizionale degli interessi della categoria dei consumatori. Sino all’emanazione della novella esistevano infatti solo alcune possibili misure, certamente insufficienti a garantire l’ottemperanza all’ordine inibitorio, quali ad esempio l’ordine di pubblicazione della sentenza su uno o più giornali a diffusione nazionale. Infatti, laddove il soccombente si fosse adeguato spontaneamente al contenuto della pronuncia, la tutela era (ed è) efficace in quanto il singolo consumatore nel mercato non si trova più davanti ad una condotta lesiva dei suoi interessi. Ma, se lo stesso soccombente dovesse rimanere inerte e persistere nel comportamento abusivo ed
illegittimo, pur inibito, soltanto il funzionamento di una misura coercitiva dell’esecuzione come quella introdotta, forse un po’ tardivamente, può far giungere all’effettività della tutela.

 

 

 














La Dottoressa Roberta Giacometti

 

 

                                                                  

 Tesi :
"
L'AZIONE INIBITORIA
Ex. art. 1469 sexies c.c."

di Roberta R. Giacometti

a cura di Maria Richichi